Adoro le camicie bianche. Il profumo dolce. Mi piace scaldare le punte delle dita tenendo forte le dita sulle corde di una chitarra senza sapere dove finire. Dormo affianco alla mia chitarra, e per mesi la ignoro. Ma la spolvero ogni santa settimana. Mi piace sentire e ignorare il punto dell’atleta, quando le gambe ti dicono che non ce la fanno più e se ti fermi hai finito di correre. Per andare a vedere l’aldilà di quello che si pensa possibile. Per spostarlo di qualche in passo in avanti ogni volta. E sentire il passaggio degli autobus che con lo spostamento d’aria provano a dirti che sono più grandi. Non mi separo per troppo tempo dal Moleskine. Da una penna bic dal tappo blu. Vivo dovunque mi metti a vivere. Viaggio la notte. Il resto è tutto un usa e getta. Ho cambiato 3 auto in 2 anni, 5 appartamenti con relativi buchi di trapano per montare la libreria, 5 o 6 telefoni, decine di amici. Ho visto il fondo di buone bottiglie di rosso. Sono stato su più di un petto, come un bambino. Pensando che sarebbe stato lo stesso per sempre. Comodo. Ho girato con la musica alta nelle cuffie per le città. Me la sono tirata a Montecarlo, però nel parcheggio ho mangiato quel che avevo portato da casa, sul cofano di una macchina da 31 mila euro, che le rate mi toglievano mezzo stipendio. Mi piace il disco, così per come è fatto, per come graffia sulla testina. Mi piace tenere spento il televisore. E attaccare le foto al muro. Non è chi piange a soffrire di più. Non mi piace doverlo fare. Impazzisco per il profumo del caffè. Deliri di onnipotenza quando intingo i biscotti nel barattolo di nutella. Mi piace non doverti spiegare se tu non mi dimostri perché sia importante che io lo faccia. Mi piace andare a 200 all’ora e chiudere gli occhi per tre secondi esatti. Sentire la pioggia sulla pelle e sui vestiti. Il cuore pulsare che non sia il mio. Odio scrivere e strappare una pagina. O dover ascoltare una canzone solo una volta. Non ballo, tantomeno sulla stessa mattonella. Quindi non sono mai dove pensi. Dove mi cerchi. Nemmeno coi pensieri.
Nel paese degli ambulanti siamo tutti ambulanti. E abbiamo le nostre preferenze. Il pesciolino rosso piuttosto che il cavallo. Il rock o R’nB. Ma siamo tutti nello stesso usa e getta. Venderemo qualcosa che poi dovremo comprare di nuovo. Oppure compreremo soltanto e butteremo. Abbiamo la nostra piazza dove montare le tende, e fare quello che siamo. Davanti a qualcuno. Per qualcuno. Poi arriva qualcun altro al posto nostro. Nuove piazze, nuove autorizzazioni, nuove lotte per il pane. Per prenderci ciò che ci spetta. Per non farcelo rubare dal vicino. Poi arriva qualcun altro al posto nostro che ci trova le mani e ce le scalda. Non ci fermeremo mai. Faremo i grandi per sentirci meno piccoli, sembriamo piccoli per essere grandi dentro. E più facciamo silenzio più facciamo l’effetto del chiasso nell’anima delle persone. Nel paese degli ambulanti ci dobbiamo accontentare di poco. Di oggi. E neanche della giornata intera. Della nostra età, delle possibilità, delle finestre che si possono aprire. Tenere a quel che dobbiamo tenere, ma non tenerci del tutto. E le mani, i capelli, le spalle, le braccia, le labbra non darle a nessuno prima di averle perse di gioia infinita.
Siamo tutti qui buttati a vivere. Con le camicie dei nostri colori. E i lavori che cerchiamo, che cambiamo, che non sappiamo se manterremo. Siamo tutti qui a sperare che di tutte le cose brutte che si sentono nulla tocchi noi o le persone a noi care. Ma siamo tutti attaccati alla stessa spina e la corrente dove cade cade. Vertigini. Vuoti. Baratri. Risurrezioni. Si sente di tutto. Non siamo spacciati finche non vogliamo crederci. Quindi prendiamo le cose che siamo, che vogliamo fare e non facciamo passare troppo tempo. Nella nuova piazza magari avremo altre illusioni. Meglio viverle una alla volta. Come fossero vere. Spegniamo la luce. Poi quando torna saremo noi un pochino diversi.