Per spiegarci, almeno. Ma il silenzio ci nega.
E spiegarsi da autodidatta cosa sia l’amore è un’impresa anche davanti agli studi degli altri e ad una lavagna zeppa, se coincida con quelle forme familiari che muovono i vestiti di lei alla maniera del vento, se siano cose dette o taciute, filmate o scattate, o rise e piante a ripetizione negli anni. Se sia una scienza di calcoli esatti ed eventualità plausibili, una storia di eroi date gradi territori volti di strada, una filosofia di perché a cascata stravecchi come i brandy, degni solo di rilegatura. Se sia il sogno acceso per tenermi su in equilibrio sopra la follia degli svegli, un capriccio a orologeria, se siano fiocchi rosa o celesti all’infuori delle porte, una normalità eccezionale o un’eccezione nella normalità, un format un target un budget per chi è avanti, almeno con l’inglese, e può esibire quanto volere quanto ottenere, o se solo è una grandissima bugia gratuita che sopportiamo da coscienti e perplessi pinocchio, consigli per gli acquisti per distrarci dall’odio dappertutto.
Provo a prenderlo da dentro per farlo salire fuori fino a scaldarmici tutto di questo benedettissimo. L’amore che il troppo silenzio nega. Che mi provoco e non vomito neanche a misere lacrime. Che gratto i bordi oro dei più ricordi, schiarisco la voce mentre la testa martella ancora rossa punendomi sulla scritta «ritenta sarai più fortunato». Il disco che gira in pausa. Ravvivo il fuoco e mi compiango guardando vecchi abbracci legati e sfibrati come stringhe nel tempo. La bottiglia di Cabernet Sauvignon si stappa da sola senza sforzo e mi verso nel bicchiere nel recupero del ruvido rosso uva da dare al rosso del sotto la mia buccia. Spengo le luci e accendo la voce nera della cantante. Tu che non prendi quel maledetto telefono tra le mani. Ed io che so che non lo fai per lo stesso motivo mio. Siamo giustificati dal punto e a capo e sciocchi tali e quali.
L’atmosfera che dà un aiuto del 20 per cento. E poi il dolore. Il vuoto. Il caldo che sboccia in tutta la stanza. Stringersi nelle pieghe delle coperte come un pulcino bagnato dai sogni per vedere dove va a fiorire. Forse una vaga idea di cosa l’amore sia può affacciarsi se c’è atmosfera. Ma tu non sei vaga sopra il tappeto di casa che non è vago e bussi con nocche decise. Non ti aspettavo. Lo so è strano, pensavo succedesse solo a Hollywood e mi butti le braccia al collo con l’entusiasmo che ti serve da slancio che quasi mi devo inarcare per contenerti tutta quanta, dolce. Che dovresti chiedere scusa al mio povero cuore per la sberla che gli hai dato. E diventi quell’80 per cento mancante a questa storia e a questo tempo che tutte le idee possono non servire più per studiare e imparare quelle cinque lettere: amore. Mi tieni le mani e non diciamo nulla. Non diciamo tutto quel che sarebbe da dire e che abbiamo già capito che si può rimandare. Ci siamo desiderati troppo tempo e sprecati per tantissimo altro. Ci siamo tenuti pronti davanti agli specchi ed impreparati davanti alla vita ma è un gioco. Che sei quel rubinetto sempre aperto che non allaga mai niente e nessuno.
Che sono quel pazzo che pagherebbe la tua bolletta per sempre. Ma è un gioco. Incroci le gambe che le calze a contatto in attrito frusciano come fossero foglie d’autunno. Ti prendi il posto ti scrolli l’inverno dal cappotto e non guardi neanche un attimo la casa. Prendi la pelle delle mie dita a millimetri discreti. Ti arrivano i miei brividi fin sopra la collana di perle. Il bambino sono io, gli anni non sembrano e non contano e lo so perché mi sorridi come una mamma. E ti lasci guardare più di tutto traverso luce e buio e gocce di lacrima nate per l’arcobaleno dell’imbarazzo. Mi arrivano i tuoi pulsi frenetici e composti assieme al profumo di sapone bianco per tutto il posto che c’è libero in me. Hai il viso stanco ma decisamente liftato dall’emozione e pensi, smarrita tra il marrone e il bruno dei capelli cosa pensi, qualcosa pensi, quel che vorrei sapere pensi. Io sono in quel traffico vicino di ipotesi, fermo ad un semaforo, indeciso se capace di rubarti il cuore come si rubano le caramelle ai bambini o lasciartelo addosso. La luce accesa è quella del mezzo. Giallo, ancora in forse sul frenare precipitosamente prima di te o precipitarmi a passare su te senza freni e lasciare il rosso agli altri di coda. Il silenzio non ha colori, il silenzio ci confessa, ci riporta qui. Non importa se sei materia improvvisa ed io non ti so dall’inizio alla fine. Ancor meno conterà se poi la tua fine diventerà il mio inizio e il mio inizio la tua fine e i nostri perimetri saranno uno spazio solo riempito di noi.
Non perdo niente di quel tuo muto dialogo per ripassarlo mentalmente e ripeterlo a questo tutto magnifico troppo senza nome. Il fuoco scoppietta, la bottiglia ancorata sul legno del tavolo langue, le fotografie sparse sopra le fiamme che divorano volti freschi e giovani del passato in coriandoli. Così decido di scappare una buona volta, di non cercare il senso per l’amore del dizionario e andare nella direzione del tuo maglione a collo alto per vedere cosa c’è di più morbido del divano e dei cuscini ripieni e del resto, passando dalla teoria ai sorrisi di cera del vero che fondono e gocciolano sulle nostre strade fatte di labbra. Tu che mi fermi, mi stravolgi, mi butto e ti recuperi, ti perdo e poi ritrovo, mi fronteggi e scansi, prendi tempo e poi disatteso lo accorci, che c’è del morbido che ci riveste pelle del cuore e ossa, tutto per mani disperate, per tutte le attese, per tutti gli sguardi che avranno coraggio. Respiri che spolveri. Respiri che ti sento, che non ti rendo. Respiri che ti sento la vita.
Fuori c’è la notte. Domani ti rivedrò dopo anni lunghissimi che sono stati questi due secondi combattuti per non farsi sfilare così eterni nel bacio. Fuori c’è la notte e dentro, domani ci saremo noi.