Quando un giocatore é costretto dall’allenatore a restare in panchina e guardare da li la sua squadra giocare, soffre.
Tutta l’attenzione del pubblico é concentrata sui giocatori in campo che lottano e nessuno si accorge del dramma che vive quel giocatore in panchina.
Mentre i suoi compagni affrontano il nemico e vivono la lotta sulla loro pelle, lui, il giocatore in panchina, porta avanti diverse battaglie.
Prima quella contro il suo ego.
Lui é così bravo, non dovrebbe stare in panchina, così il suo talento é solo sprecato.
Così finisce per odiare l’allenatore.
Allora inizia la seconda lotta, quella che annebbia la vista e non ti fa vedere quello che di reale c’è, la lotta verso l’altro, quella verso quel padre che l’ha intrappolato in quella panchina.
Ma ben presto, appena riesce a guardare l’allenatore negli occhi, il giocatore capisce che non é colpa del suo allenatore se é seduto su quella panchina.
É qui che inizia la battaglia più dura, nel momento in cui il giocatore capisce di non essere stato in grado di scendere in campo, di essersi accontentato di guardare i compagni vivere solo perché se si resta in panchina non ci si può far male. É qui che inizia la lotta contro se stessi, la lotta contro il fantasma della propria anima e il demone delle proprie paure.
Da quella lotta uscirà un vincitore e un vinto e in ogni caso né il vincitore né il vinto saranno più la stessa persona che ha iniziato la lotta.
Nessuno si accorge mai del sangue invisibile che scorre sulla panchina.
Jessica Costantini