Bambini che giocano a fare i grandi, vecchi che fanno i bambini, pervenuti a metá, sregolati e implosi, approssimati e inadeguati, e noi che non sappiamo quanto pretendere dalla vita, quali regole infrangere, con che ordine. Messi sulla terra di Dio come apici che non trovano riposo a terra, la terra dei tacchi a spillo, delle gomme da masticare che ti intrappolano, delle merde spartitraffico dei cani. Tutto quello che rubiamo non ci resta, neanche l´accozzaglia di respiri pungenti da bocca a bocca, tutti quelli che ce la pagano non sará niente di meglio per nessuno e il tempo perso a piangere cose mai viste barra vissute non ce lo mettono nel 740, non ci torna indietro in percentuale col tfr. Nemmeno un minuto di vento in piú su queste vite bastarde, quasi ai saldi, che non ci scolliamo dal culo.
Chi dice “é troppo tardi”, “non serve a niente”,”forse”, chi non dice nulla. Ti vedo da come tremi. E noi come apici, che dobbiamo aprire qualcosa che non ci spetta, chiudere qualcosa che non si é goduti senza essere nel senso. Il senso. Di mano in cuore. Sfociamo tutti lá, con l´acqua alla gola. Devo arrendermi? Ah, no, dicono tutti di no ma pensano tutti di sí quando suona la sveglia. Ma poi scatta qualcosa, come tra questi pensieri disordinati, prevale qualcosa, almeno il senso del dovere, di recuperare quella vita zoppa e attaccarla al culo come rimorchio e muoversi.
Noi siamo quelli che ci parli e sentiamo in differita e se ci arriva, cosa arriva, sono titoli di coda. Noi siamo quelli che sentiamo la patina sottile sulle cose e camminiamo in punta di piedi per non romperla. Sulla nostra ci hanno corso sopra. E poi abbiamo trafitto a casaccio,aspettato in ritardo, respinto a prescindere. Noi che diamo tutto quando abbracciamo; che respiriamo le persone e piangiamo dentro tante di quelle volte che passeremmo per matti. O forse per deboli, che é piú pericoloso. Noi che spendiamo amore convinti per far girare una economia che dicono in crisi. Che siamo abituati a rompere quello che resta, i souvenir.
La gente si pulisce le scarpe su quelli che crede tappeti, magari sono autostrade senza uscita da cui franano detriti d´usura, magari siamo noi che aspettiamo solo che qualcuno chiami per nome per sollevarci da terra e fare di quattro corsie una. Ecco vedi a noi apici ci saltano, ci siamo, leggeri come la libertá di fare il nostro lavoro e non essere pronunciati. Libertá di essere nessuno, di sentirsi nessuno, di cancellarci dalle bocche e dalle coscienze. Che poi ci stanchiamo. Allora via le mani dal corpo, via il telefono che squilla a oltranza, via “la preghiamo di ritornare il..”, via le facce insensibili sui cui tratti non resta niente, via i passaggi, le foto do gruppo, via i “mi piace”, via i sogni nostri solo perché erano degli altri, via tutto quello che ti tiene “qualcosa”, a qualcosa, a qualcosa di andato.
Noi apici siamo senza traguardi, con la posizione stretta decisa dalle regole della sintassi che nessuno ci ha spiegato e con i sogni dentro le scatole di perenni traslochi. É difficile parlare di “apici” agli schizzinosi, ai maniaci della perfezione, alle farse deambulanti, a chi vive per status, a chi non sa cosa vuole dire combattere con i pugni chiusi il vento. E allora non lo facciamo, non aspettiamo piú. Noi apici finiamo lí senza che il mondo si sbilanci o che qualcuno alzi la voce, ci restringiamo e ci stingiamo il cuore tutte le volte che non sappiamo dire basta.
Tra le polo scolorite di mezza estate con un sorriso triste che vuole dire “oh darling” mi troverai. Ma non mi troverai, mi vedrai, di nessuno e neanche mio, con la vita che é andata che é andata e la vita che viene come una vibrazione che si percepisce prima che arrivi. E se vibrano gli apici allora, non si portano appresso frase alcuna, vanno dritte e spaccano il foglio, Ta-a un tempo, di cose vere, si caricano come pistole che nessuno sa maneggiare e allora, allora vive anche tutto il resto del mondo.