Uno
Leslie sta sulla neve come per incanto. La sfiora leggera senza lasciar tracce e per vederla devi guardare bene, intensamente tra i fiocchi, i coriandoli del cielo di Gennaio. Il suo muso buffo annusa il freddo e il profumo della carne che cuoce dentro, impaziente. Leslie è una bella cuccioletta di ‘Alaskan Malamute’ dalla folta pelliccia bianca e grigia, la sorellina minore dell’husky. È robusta, in salute, una brava conduttrice di slitta, furba e straordinariamente docile. Per una coccola in più porterebbe senza fermarsi un carico di legna da Beaver Creak a GoodNews Bay, dalla montagna al mare.
Leslie è il regalo dell’ultimo natale fatto a Leslie, la sua padroncina. Però è di tutti, di tutta la famiglia, e quando saltella sulla neve della via principale è in prestito a tutta Big Lake. La sua padrona ha 17 anni e non ha niente se non il papà che lavora dieci ore al giorno, qualche insegnante che la sta preparando agli esami, la compagnia di Leslie. E il silenzio di un posto unico e dimenticato da tutti. Di tutto quel magico silenzio le rimangono le Philip Smith Mountains e la neve che prova a nasconderle. Leslie ha i capelli scuri ricci che le cadono fuori del collo alto del maglione, solitamente provenienti da un berretto di lana grossa e colorata. Anche lei è bianca. Bianca come la neve. Però quando entra nell’aula di scuola o al rientro entrando nella cucina di casa le guance le si fanno improvvisamente rosse finché non si abituano al caldo. È una bella ragazzina, ma non lo sa.
Nessuno glielo ha mai detto, neanche il papà.
Big Lake è un paese molto piccolo. Leslie ha solo quattro compagne di classe e non sono nemmeno sue amiche. Erik, il papà, ha provato a convincerla a socializzare di più con loro perché vengono da famiglie rispettabili, sono educate, e perché così passerebbe il tempo e imparerebbe i segreti della vera amicizia. E poi l’inverno è lungo. Non si può stare sempre soli a casa. Leslie non le vuole come amiche. E in risposta al perché del padre, una volta sola ha detto:
«non capiscono la poesia».
Poi il silenzio. Si è spiegata così, come se bastasse. In effetti ad Erik non bastava, ma era ormai troppo preso dalla pesca dei salmoni, il lavoro stagionale di tutta Big Lake. In più quest’anno i pescioni sembravano essersi riprodotti di più.
Così il silenzio di quelle cose non dette rimase. Erik è conosciuto come ‘Big Erik’. E ci sta bene. Un ‘Big Erik’ a Big Lake. In effetti è proprio robusto, ma tutti si chiedono come possa esserlo dato che nonostante tiri su quella mole mangi quanto un cardellino. Leslie, la sua bianca bambina è l’opposto, è la mamma da giovane, pallida e magra e mangia forse la metà di un cardellino. Quindi la cena è solo uno scambio di bottiglia d’acqua sorgiva tra piatti che stanno semi pieni e smettono presto di buttar su vapore. Dei grazie e qualche prego. Leslie, l’altra Leslie, quella paziente lupacchiotta col muso tra le tendine, in pratica era per lei che si cucinava. Erik non lo dà a vedere, ma è preoccupato per la figlia. Non abbastanza? Non è così semplice. Magari lo fosse. Sarebbe ingiusto anche un giudice giusto che ascolta l’arringa di un avvocato giusto in un tribunale super giusto nel giudicare un padre. Ci son tante cose in gioco. Vedere nelle intenzioni non riesce a nessuno, neanche con la giustezza per occhiale.
Due
Dovete sapere che in Alaska a causa del gran freddo il mese di Gennaio e Febbraio le scuole restano chiuse, un po’ come le vacanze estive, quelle più lunghe che si fanno in Europa. Lì invece l’estate è ideale per studiare perché è come la nostra primavera. Leslie un giorno di metà Gennaio, come al solito, prese una tazza di caffè lungo dalla macchinetta elettrica, la bevve in un sorso, prese il cappotto pesante, sciarpa e stivali, staccò le chiavi dal loro posto sulla parete, prese un quaderno, una penna più una di scorta e uscì. Anche se non c’era scuola. Con lei l’altra simpaticissima Leslie a saltellarle attorno. La direzione era verso il bianco. Il bianco della neve. La neve era dappertutto. Quindi non c’era una direzione vera e propria. Ma a lei serviva un bianco, quel bianco bellissimo che aveva visto fin ora solo in testa. Leslie e la sua padrona si spingevano camminando in territori quasi sconosciuti. Il vento gelido cominciava a filtrare dai monti e i gradi da -10 si spingevano ancora più giù. La neve diventava sempre più pesante e sempre più alta.
Il paesaggio era di compagnia: abeti e larici, le cui foglie aghiformi e la cui chioma piramidale sopportano quelle intense nevicate. Di tanto in tanto non mancavano, tuttavia, foreste di betulle, pioppi e ontani. Macchioline di verde scuro sotto il tappeto bianco. Nel loro sottobosco con i muschi nascosti numerosi animali silenziosi, tra cui l’orso, l’alce, la renna e il lupo, la lince, il ghiottone e lo zibellino. Qualche verso al passaggio delle due esploratrici da parte di crocieri e nocciolaie, volatili abituali frequentatori delle foreste di conifere. E ogni tanto anche qualche casupola, la cui luce usciva fuori dalle finestre e si posava sulla neve. L’odore della legna bruciata della stufa, quello della corteccia umida che si mischia al suo vapore. Il profumo di tante minestre che esce caldo dagli spifferi. Faceva sera e Leslie non aveva ancora trovato quel bianco, così tornò a casa, dispiaciuta, con un quaderno che doveva avere almeno una pagina piena, vuoto.
Divenne un’abitudine. Ogni giorno Leslie dopo che Erik usciva per andare al lavoro si preparava, prendeva due penne e un quaderno, chiamava Leslie e andava verso la stessa direzione del giorno precedente, rifacendo tutto il cammino per arrivare allo stesso punto. Da lì guardava l’orizzonte, si girava indietro e poi lo superava. Si portava sempre più in là. Leslie amava troppo la neve e quel freddo pungente. Quel bianco suddiviso in fiocchi d’arte. Quelle forme strane durante il tragitto diventate qualcosa grazie alla neve, e quei colori diventati nient’altro che bianco grazie alla neve. Quel rumore unico che fa la neve compattata, o quello che fa quando la appoggi sulla pelle del viso calda e lei squaglia e a te pizzica, quel sapore ancora più puro dell’acqua.
Secondo Leslie Dio ci crea alla stessa maniera dei fiocchi di neve. Ognuno diverso, con i suoi particolari che noti solo se guardi da vicino, ognuno necessario, speciale, voluto a questo mondo e ognuno destinato a sciogliersi prima o poi, in volo oppure a terra. Ognuno a contribuire al progetto di Dio. Così ogni volta che nevica è perché lui sta facendo nascere qualcuno al posto di chi ha lasciato il vuoto. Leslie cominciò a tornare sempre più tardi a casa, sempre prima di Erik. Lei viaggiava. La notte con la fantasia dalla camera sua. Il giorno coi piedi arrivava lì in quei posti che aveva immaginato. Una sera Leslie arrivò in un posto davvero lontano, un posto strano. Una radura di ghiaccio spesso, sgombra, con un cartello piantato all’altra estremità. La scritta era illeggibile dalla notevole distanza, così scese dall’altura da cui proveniva. Durante il percorso che fece per scendere cominciò a nevicare fiocchi bellissimi, grossi e leggeri. Stavano sospesi non si sa per quanto tempo in aria. Ancora cinque minuti. La pallida ragazza arrivò davanti al cartello. Restò in silenzio. Non tremò neanche per un attimo. La scritta diceva: ‘Qui giace Leslie Petterson’.
Tutto qui. Nient’altro. Neanche una foto sù. C’era tutta la storia che le avevano raccontato. Era la mamma. Tra una fessura di nuvole uscì un raggio di sole fortissimo. Il ghiaccio divenne uno specchio, i fiocchi divennero le gocciole specchiate che andavano per conto loro, in salita e in discesa, e la luce del ghiaccio esagerarono le nuvole bianche cariche di neve. Il bianco. Quel bianco impossibile che cercava… Si sedette accanto al cartello storto, sulla neve sul ghiaccio e sulla luce, prese il quaderno e scrisse.
Tre
Una volta una zia le aveva chiesto che regalo volesse per la promozione, dicendole che tutti i parenti avrebbero fatto una colletta e lo avrebbero comprato per lei. Si aspettava la richiesta di un oggetto costoso, un telefono come quello che piaceva alle sue compagne o un bel vestito per non passare inosservata alla festa di fine anno. Leslie le rispose che voleva solo il bianco della neve. Il bianco più bello della stagione per scrivere la poesia più bella della stagione. In casa risero anche gli zii più disinteressati. Nessuno poteva darle un colore. E le poesie non servono a niente, sono come le storie inventate, un modo per togliere il tempo allo studio e al lavoro e darlo alla fantasia.
Ma chi si sente di scrivere qualcosa lo sa da che nasce e appena impara a farlo lo fa. In silenzio. Fantasia o no sicuramente è la cosa che desidera di più, sia messa in discussione oppure no. A 17 anni poi si sentono ancora forti le strette, le strozzature all’imbuto del cuore per le cose non dette. Andrebbero gridate. Chi non ha la forza nella voce le grida su un foglio di carta. Leslie. Quel giorno in mezzo al ghiaccio, alla neve e alla luce aveva scritto la poesia più bella non solo della stagione ma della sua vita. La stava aspettando. Quella stessa sera durante la cena aveva stranamente aperto bocca e chiesto a Erik: «Mamma?». Era una domanda per sapere tante risposte. Era una di quelle domande che tutto il tempo trascorso ti rende inaspettata da rispondere. Una specie di voragine improvvisa da colmare.
Erik le chiese: «Mi passi il pane per cortesia?». Era una domanda per chiudere tutti i perché. Torniamo un attimo alla poesia. Leslie non viveva di altro. Non aveva niente nella sua gioventù, aveva solo la capacità di guardare dentro alle cose più superficiali e banali del mondo e di tirare fuori le loro gemme più belle e anche più tristi cui non si fa mai caso. I significati più nascosti. Ci potresti provare, ma non ci riusciresti neanche in un millennio. È come avere un senso di più. O lo hai o non lo hai. Se lo hai sei anche più fragile. Leslie aveva bisogno di crescere tanto tanto e tanto. Ma non per la poesia. E neanche per l’altezza. E di diventare più forte. Crescere per vivere più cose, per uscire dal pianerottolo con la testa un po’ più in su, con gli occhi un po’ più lucidi, a spalle dritte e con il colore dei denti visibile ogni tanto tra le labbra. Però una cosa l’aveva capita. Ed era una cosa molto importante. Quel giorno tra neve ghiaccio e luce. Non bisogna credere agli altri, la vita è bugiarda, bisogna cercarsi la verità da soli. Crederci fino in fondo anche se rasenta la fantasia. Crederci e scriverla, su un quaderno a righe. Passò qualche anno. Leslie un giorno uscì di casa e non vi fece più ritorno. Sapeva cosa lasciava, sapeva cosa voleva trovare. Erik in fondo era un buon padre e le sarebbe mancato. Ma le sembrava più importante trovare ciò che aveva perso che mantenere ciò che già aveva.
Sarebbe stato un viaggio lungo ed incerto. Sarebbe stato dolore. Però c’era ancora tanto bianco da vedere, tanti bianchi da desiderare su per la strada. Leslie nel suo cammino si fermava ad ogni villaggio che incontrava, ad ogni gruppo sparso di casette di legna col tetto a punta, chiedeva ospitalità ed in cambio offriva manodopera. In quei viaggi conobbe tante persone diverse, tanti apprezzabilissimi fiocchi diversi, contadini e intellettuali, parlò con i saggi sui misteri della vita, con operai e artigiani che le svelarono i segreti per costruire qualsiasi cosa, con le famiglie imparò ad accettare la compagnia e la cooperazione, dai vagabondi soli come lei sentì le storie più affascinanti degli angoli più nascosti del paese. Non si tratteneva più di una settimana, chiedeva informazioni, memorizzava le cose più belle del posto, le faceva affondare nel cuore, le ripescava per portarle sulla carta. Semplice e naturale. Via di nuovo. Il mondo andava avanti più veloce di lei, gli anni passavano, la tecnologia, le scoperte, il sapere e la cultura arrivavano fin in cima alle montagne. Ma lei era sempre lì con le sue quattro cose, con Leslie paccioccona e il suo bastone fra la neve a disegnare scie sui fiocchi in un viaggio senza fine. Fino al giorno che incontrò Rijk. I suoi occhi erano qualcosa di più bello del ghiaccio. Il suo sorriso era più della luce, dei riflessi di tutti i bianchi del mondo. Fece leggere a lui tutte le sue poesie. Ma non poteva fermarsi. Lui, che era un giovane editore, le pubblicò un libro da quelle poesie scegliendo le più belle. Giusto il tempo di darle una copia prima che ripartisse. Lei amò Rijk con uno sguardo intero. Lo ringraziò con una voce a metà. Poi si voltò verso una nuova strada.
Quattro
Anni. Quanti anni. Leslie cominciava a sentire il peso del viaggio. Il tempo la stava facendo invecchiare prima del tempo. Adesso aveva 30 anni, uno zaino sulle spalle che sembrava più faticoso, una vecchia ‘Alaskan Malamute’ dietro le scarpe che andava curata. Il vento gelido di mille posti diversi le aveva scolpito le guance, il sole le aveva schiarito i capelli che portava lunghissimi. Gli occhi erano pieni delle cose che avevano visto e non riuscendo a sostenerle creavano delle pieghe sotto le palpebre. E dentro qualcosa si rinnovava sempre. Forse per la speranza. Un giorno di Novembre arrivò alla fine. Aveva percorso tutta la regione senza risultati. Ciò che cercava non c’era. Era maledettamente fantasia. Una fatica inutile. Così riprese le ultime energie per il viaggio di ritorno. Lo fece tutto in lacrime. Squagliavano la neve che incontrava pensate. Non c’era niente al mondo che desiderasse di più. Trovarla.
Anni. Ancora anni. Aveva la gola secca, le scarpe bucate da cui entrava la neve, Leslie la sua unica compagnia era morta nel viaggio di ritorno, non si sentiva più le gambe, non si sentiva più di vivere. Non aveva più famiglia ormai né casa. Non poteva andare più avanti così. Doveva fermare quelle ossa. Così si fermò inciampando su un cartello. Era lì dove aveva scritto la poesia per lei. La più bella della sua vita. Era ancora sul quaderno. Era ancora quella radura di ghiaccio spesso di tanti anni addietro su cui veniva pianta neve fresca. Era ancora un raggio di sole che usciva per lei. Davanti a lei stava una figura scura coperta dentro la sua pelliccia. Non la vedeva, era troppo occupata a far uscire dolore e stupore dalla gola. Il suo corpo congelava.
Davanti a lei la figura si avvicinò, la prese la strinse forte e la rinchiuse nei suoi abiti. E del calore suo lo dava a lei. Quel calore che significa vita. Era una donna alta e pallida dai capelli neri che sottovoce pregava. Leslie aveva perso la sensibilità nella pelle, perdeva i sensi, ma riusciva a sentire in lontananza che qualcuno era lì. Socchiuse gli occhi. Quando finisce tutto finisce anche la disperazione. Leslie non sapeva che il suo libro di poesie, quello stampato e venduto da Rijk, era diventato famosissimo in tutta la regione. Che tutti i lettori di poesie conoscevano le sue poesie. Che le librerie facevano a gara per svuotare gli scaffali. Nessuno sapeva chi fosse ma tutti la conoscevano. Non sapeva di aver vinto il premio speciale dedicato al più importante scrittore dell’Alaska. Il presidente in persona l’aveva cercata dopo che il ministro della cultura e affari sociali non era riuscito nel compito di trovarla. Non tanto per la medaglia ricordo. C’era da presentare alla gente questa persona speciale, tutti aspettavano di sapere chi fosse. Che faccia avesse e quali fossero quelle dita fatate, sapere da dove veniva quel candore speciale che stava dentro a ogni suo verso.
Leslie non sapeva che la poesia più bella era arrivata a destinazione. Dove non era arrivata lei in un estenuante viaggio era arrivata la sua poesia. Dove era finito quel suo viaggio ne era iniziato un altro. Quello della signora Leslie Petterson. Quella poesia che aveva fatto il giro dell’Alaska chiedeva di lei, era dedicata a lei. La scongiurava di ricordarsi di essere ancora mamma. Lei ora era lì per questo. Doveva darle ragione, dirle che era stupenda. Per uno strano caso si erano incontrate proprio lì, sopra la sua tomba, finta. L’idea di fingere che fosse morta era stata del suo ex marito, Erik, per evitare di spiegare alla figlia l’assenza della madre. Lui non l’aveva voluta. Era morta e basta, facile. Lei aveva accettato di fingere. Ora si trovava appiccicata a una figlia ghiacciata, un monoblocco che faceva pietà, a quel senso di rimorso forte, forte di anni. Ora c’era da far tornare indietro tutto quel che si può.
Non era stato tutto inutile. No che non lo è stato Leslie.
Quando riprese vita sentì delle guance sulle sue. Sentì una faccia di gocce dire: «sono la mamma, sono qui». Erano lì dove aveva scritto quel giorno la poesia per lei. La più bella della sua vita. Era ancora sul quaderno. Era ancora quella radura di ghiaccio spesso su cui veniva pianta neve fresca. Il ghiaccio divenne uno specchio, i fiocchi divennero le gocciole specchiate che andavano per conto loro, in salita e in discesa, e la luce del ghiaccio esagerarono le nuvole bianche cariche di neve. Un bianco più bello di qualsiasi poesia. Tra una fessura di nuvole uscì un raggio di sole fortissimo. Loro sdraiate sul ghiaccio senza perdersi un centimetro di abbraccio e calore erano la vera poesia.
Ancora un raggio di sole che usciva per loro.
Questo racconto é stato premiato al premio F.Pasqualino 2008 con menzione d´onore.