La notizia dell’assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan è ormai vecchia di quasi un anno e, in effetti, l’eco mediatica su di essa si è decisamente affievolita. Una decisione, quella presa dall’Accademia di Svezia, che aveva a suo tempo sollevato un dibattito culturale molto acceso, con la più classica delle fratture nell’opinione pubblica: chi sosteneva che il Nobel al menestrello di Duluth fosse il giusto riconoscimento a una carriera lunga e ricca di successi, di contro chi vedeva il premio come un coup de theatre, addirittura un’azzeccata strategia di marketing.
Potrà sembrare fuori luogo tornare sull’argomento a mesi di distanza, ma, rileggendo l’antologia dei testi dylaniani, ci è sembrato opportuno – proprio perché si tratta di una riflessione fatta “a mente fredda” – cercare di analizzare meglio alcune delle motivazioni che, ipotizziamo, possano essere state addotte in sede di discussione per assegnare il premio al cantautore americano.
Lo stile e il linguaggio
“Chiunque abbia un messaggio imparerà dall’esperienza che non può metterlo dentro una canzone” ha detto una volta lo stesso Dylan: è indubbio però che gran parte del successo che giustamente negli anni gli è stato tributato si debba all’incisività e alla densità di significato dei suoi testi. In termini strettamente linguistici Bob Dylan ha saputo produrre versi di grande impatto, muovendosi su più registri: dalle incursioni lessicali nella mitologia beat e hobo (valga come esempio uno dei primi brani mai registrati dal cantautore, Ramblin’ gamblin’ Willie), alle complesse metafore di Restless farewell o dell’altrettanto celebre All along the watchtower, fino agli autentici racconti per immagini come Desolation Row e Tangled up in blue. Dylan è poi uno dei pochi artisti in grado di far coesistere, all’interno della sua produzione (e spesso dello stesso disco), brani dal respiro universale, dotati di una metrica piana e di un linguaggio accessibile a tutti, a composizioni dalla struttura quasi ermetica ed estremamente sofisticate dal punto di vista formale.
Chiunque ricorda la prima strofa di Knockin’ on Heaven’s door e il ritornello di Mr. Tambourine man, chiunque ha canticchiato almeno una volta “How many roads must a man walk down/Before you can call him a man?”. Una piccola statistica lessicale condotta dal sito maggiesfarm.it evidenzia come tra le parole più frequentemente usate da Dylan nelle sue canzoni figurino “love”, “man”, “night”, “eyes”, “train”, “life”: voci tutte ascrivibili al vocabolario di base dell’inglese.
Accanto a questi esempi però troviamo passaggi come “Through the mad mystic hammering of the wild ripping hail/The sky cracked its poems in naked wonder/That the clinging of the church bells blew far into the night/Leaving only bells of lightning and its thunder” da Chimes of freedom, o ancora l’elegante preghiera di Every grain of sand, esempi di una ricerca sulla lingua che non è blasfemo definire letteraria. E che dire delle ambiguità semantiche di Visions of Johanna o della più recente Things have changed?
Alcuni ingredienti stilistici infine rappresentano un marchio di fabbrica della scrittura dylaniana: anzitutto l’evocativa retorica delle canzoni di protesta, come in Masters of war, col vibrante uso del “voi”, a sottolineare il dissenso dell’autore dalle logiche della guerra come strumento politico; poi l’ironia cinica e diretta, come nelle più che celebri strofe di Like a rolling stone; le visioni intimiste della donna e dell’amore, vissute sempre con un certo disincanto (si pensi a Lay lady lay, a Is your love in vain? o alla più recente Love sick); il rapporto con la fede, dipanato addirittura in una trilogia di album tra la fine degli anni’ 70 e l’inizio degli ’80 ma fin dagli esordi vero e proprio filo rosso per citazioni, similitudini e riferimenti.
Le fonti di ispirazione e le influenze su altri artisti
Sono note molte delle fonti – musicali e non – alle quali Bob Dylan ha attinto nel corso della carriera. E non può essere un caso che si tratti sempre di ispirazioni di indubbio valore letterario, che ci si riferisca ai blues parlati di Woodie Guthrie (la cui attività di scrittore tout court fu peraltro prolifica) o alle liriche di Dylan Thomas, alle pagine di Brecht come alle poesie di Blake, ai passi della Bibbia o ai versi dei maudits. Un cospicuo bagaglio di spunti, idee, suggestioni che nei testi del cantautore di Duluth ha trovato una propria coesione, una concreta ragion d’essere.
Ma quel che più colpisce è quanto l’opera di Dylan abbia influenzato il lavoro di altri. Tanti (qualcuno anche a sproposito) i musicisti che si sono dichiarati suoi debitori: inevitabile citare Bruce Springsteen, Patti Smith, il “nostro” Francesco De Gregori, ma pensiamo anche ai R.E.M. e allo scioglilingua di It’s the end of the world as we know it (and I feel fine), il cui antenato più diretto pare proprio essere un brano dylaniano, Subterranean homesick blues. E forse sono anche di più gli scrittori che hanno visto e tuttora vedono nel cantautore un punto di riferimento: un ideale continuum, che da Ferlinghetti e Ginsberg (che con Dylan collaborò a più riprese) arriva fino a Don De Lillo. Non si contano poi i tributi riservati da altre arti: valga come esempio il cinema, con un’infinità di titoli che hanno inserito un brano di Mr. Zimmerman nella propria colonna sonora. L’elenco sarebbe davvero troppo lungo: citiamo Paura e delirio a Las Vegas dove si può ascoltare Stuck inside of mobile with the Memphis Blues again, The Hurricane, col traino dell’omonimo e celeberrimo pezzo, il pluripremiato Wonder boys (con un Oscar, un Golden Globe e un Grammy per Things have changed) e Watchmen, la cui magnifica introduzione è scandita dalle note di The times they are a-changin’.
La portata culturale della sua parabola artistica
Che lo si voglia o no, la carriera ormai quasi sessantennale di Bob Dylan ha attraversato uno squarcio di storia del mondo davvero denso di avvenimenti e grandi trasformazioni in senso sociale, politico, in definitiva culturale. E il lavoro del cantautore americano ha nitidamente fotografato – talvolta con impegnato trasporto, talaltra con sprezzante disincanto – molti di questi accadimenti, diventandone spesso la voce, la sottolineatura, ancorando a quei fatti la memoria collettiva di una generazione. Dalle battaglie per i diritti civili – sullo stesso palco di Martin Luther King – all’assassinio di Kennedy, dal Vietnam alle tensioni internazionali degli anni ’70 e ’80, fino al primo scorcio di questo nuovo millennio, Dylan è stato innegabilmente uno dei più lucidi interpreti dei cambiamenti, delle metamorfosi e delle distorsioni occorsi nel panorama della storia occidentale. E a testimoniarlo è proprio la forza dei suoi testi: quanto suonano ancora attuali le crude visioni di A hard rain’s gonna fall, o questo passaggio tratto da It’s alright Ma (I’m only bleeding): “Advertising signs that con you/Into thinking you’re the one/That can do what’s never been done/That can win what’s never been won/Meantime life outside goes on/All around you”.
In conclusione dunque, Bob Dylan è stato il cantore di un’epoca e oggi è una delle figure culturalmente più influenti e rappresentative a cui si possa far riferimento. Aldilà delle etichette o dei riconoscimenti, dunque, la sua attività di scrittore e di autore non può essere ignorata.
[amazon_link asins=’880749213X,8820379783,B0001M0KF2′ template=’ProductCarousel’ store=’leggacolo-21′ marketplace=’IT’ link_id=’b7f5db84-8a4c-11e7-9ee7-c1e3b0e4c116′]