Nell’aprile del 2014 il rapper pugliese Caparezza ha pubblicato il suo nuovo album, Museica. Il titolo dell’opera è un incrocio dei termini ‘musica’, ‘museo’ e ‘sei’: si tratta infatti di un album musicale, per la precisione il sesto del cantante, e la novità sta nel fatto che questo deve essere non ascoltato bensì visitato come se si trattasse di un museo. Nei social l’artista ha fornito eloquenti spiegazioni in merito ed ha così descritto il suo nuovo prodotto: «Museica è il mio museo, la mia musica, il mio album numero 6. È stato registrato a Molfetta e mixato a Los Angeles dal pluri-blasonato Chris Lord-Alge. Essendo io sia l’autore che il produttore artistico, lo considero come un nuovo “primo” disco. È un album ispirato al mondo dell’arte, l’audioguida delle mie visioni messe in mostra. Ogni brano di Museica prende spunto da un’opera pittorica che diventa pretesto per sviluppare un concetto. Non esiste dunque una traccia che possa rappresentare l’intero disco, perché non esiste un quadro che possa rappresentare l’intera galleria. In pratica questo album, più che ascoltato, va visitato». Non a caso la presentazione del cd è avvenuta in una galleria d’arte, il Museo Fondazione Luciana Matalon.
L’album consta di diciannove tracce, ognuna delle quali si ispira ad un artista (ad esempio Giotto o Van Gogh), ad opere d’arte (come ‘Il Saturno che divora i suoi figli’ di Francisco Goya o il graffito ‘My God, Help Me to Survive This Deadly Love’ di Dmitry Vrubel) o anche a tendenze culturali quali il dadaismo (e al suo rifiuto della violenza e della guerra). Dopo il successo dei brani d’esordio ‘Non me lo posso permettere’ ed ‘È troppo tardi’, Caparezza sceglie come terzo singolo un vero e proprio inno alla scrittura, un manifesto poetico che si profila come un pellegrinaggio sacro a China Town, ossia la ‘città dell’inchiostro’ (che nulla ha a che fare, evidentemente, con la nozione di ‘città cinese’, come sembrerebbe presupporre apparentemente il titolo stesso a prima vista). «Potrei definirla come la mia prima ballad – scrive lo stesso Caparezza. È una canzone d’amore per l’inchiostro e per la scrittura. Se ne sta lì, nero su bianco, come il quadrato di Malevič». Il ‘Quadrato nero’, opera del pittore russo Kazimir Severinovič Malevič realizzata nel 1915, è infatti la musa ispiratrice di questo testo.
‘China Town: il mio Gange, la mia Terra Santa, la mia Mecca’ canta Caparezza. Perché la città dell’inchiostro, emblema dell’arte dello scrivere, è un territorio estremamente sacro. Sacro come il fiume Gange per gli indiani, che purifica ed elargisce prosperità e fecondità. Sacro come la Terrasanta lo è per ebrei, cristiani e musulmani. Sacro come La Mecca, città santa per eccellenza dei maomettani. Carta e penna diventano così strumenti per la celebrazione di un culto, quello della scrittura. Ma la sacralità di quest’arte è un concetto paradossalmente dissacratorio, poiché così Caparezza esordisce nel suo brano: ‘Non è la fede che ha cambiato la mia vita, ma l’inchiostro che guida le mie dita, la mia mano, il polso’. L’inchiostro è una linea-guida di colore che sembra disegnare la vita dell’artista.
Ma la scrittura non è solo sacralità per il cantante pugliese: è anche magia, prodigio, per l’appunto un ‘prodigio che dà voce a chi non parla, a chi balbetta’. L’inchiostro è in grado di far parlare anche chi non è in grado di esprimersi con le parole, chi pertanto se ne sta zitto con il rischio che il suo mondo non possa mai venir fuori. Così ‘l’inchiostro sa quante frasi nascondono i silenzi, d’un tratto esplode come un crepitio di mortaretti, come i martelletti della Olivetti di Montanelli’. La scrittura consente quindi di liberarsi da ciò che la barriera della voce impedisce che venga fuori, la scrittura ha anche una funzione catartica.
Il ritornello del brano recita: ‘Vado dagli Appennini alle Ande, nello zaino i miei pennini e le carte, dormo nella tenda come uno scout, scrivo appunti in un diario senza web lay-out. China Town. Il luogo non è molto distante, l’inchiostro scorre al posto del sangue, basta una penna e rido come fa un clown, a volte la felicità costa meno di un pound’. La scrittura è sacra, prodigiosa, ma è anche dilettevole. Perché diverte, procura benessere all’anima, è una medicina contro i grandi mali di tristezza e indifferenza.
Cos’è, dunque, scrivere? Scrivere è sacralità, è prodigio, catarsi di sé, scrivere è felicità e benessere interiore. È un potente concentrato di divino e umano in grado, forse, di salvare il genere umano dall’infelice condizione in cui a volte ristagna. Scrivere è vita: lo è per Caparezza in questo pezzo, lo è per chiunque si avventuri nel grande pellegrinaggio a China Town.
Antonio Puleri