A distanza di cinquanta anni dalla prima edizione (1964), Rizzoli edizioni Bur ridà alle stampe uno dei testi più sofferenti e più significativi della produzione letteraria italiana contemporanea: Il Male Oscuro di Giuseppe Berto. Un flusso ininterrotto di coscienza che scardina la sintassi e la grammatica tradizionale imponendosi per la sua sostanziale assenza di punteggiatura. Il romanzo, una sorta di diario alla Zeno Cosini , ripercorre la vita dell’autore, solipsistico e camicia nera, dall’infanzia al rapporto fallimentare con l’universo femminile. Vicino a Joyce e al monologo teatrale, Giuseppe Berto, sceneggiatore cinetelevisivo, in preda ad una potente crisi esistenziale, iniziò a scrivere per catarsi dietro indicazione del suo psicoanalista. Benché l’autore rifugga per indole dal parlare di sé, in romanzo è di fatto autobiografico: uno sceneggiatore, in seguito alla morte del padre, cade in una depressione che lo coinvolge a 360 gradi, facendo scempio della sua vita sentimentale-affettiva, a causa di una nevrosi somatizzante di carattere isterico. Divenuto certo del tumore del padre e della conseguente morte, pensa di aver contratto la medesima malattia, ma in realtà fisicamente è assolutamente sano, mentre il disturbo è di matrice meramente psicologica.
Chiunque nella sua vita sia stato o sia affetto da una nevrosi vorrebbe che questo libro sia parto della fantasia dell’autore, invece è assolutamente fedele ritratto della vita amara e conflittuale di un uomo che per modalità di sofferenza e potenza espressiva si può accostare a C.E. Gadda affetto da un feroce complesso materno. Ci chiediamo perché proprio oggi sia il caso di riproporre un testo sacro di psicoanalisi.
Perché, checché ne dicano i detrattori, la psicoanalisi freudiana coglie la verità della vita di molte persone ancor oggi affette da nevrosi depressive o compulsive, perché si tende a riproporre in età adulta modalità di comportamento acquisite nell’infanzia attraverso le relazioni parentali, specie genitoriali. Così, come si desume da contributi fondamentali della psicocritica contemporanea come quelli dello studioso esimio Enrico Castrovilli (Scritti di psicocritica), la psicoanalisi resta uno strumento di ricerca validissimo per indagare dentro la storia personale di scrittori del calibro di Berto e Gadda, perché essi sono la prova vivente che la psiche non è solo una parola, ma una realtà che s’impone allo sguardo di chi soffre e di chi raccoglie il messaggio di aiuto che viene lanciato attraverso i sintomi che qui si fanno letteratura. Ora che diventi letteratura non è detto che la sofferenza sia una sovrastruttura mentale, ma essa è reale più di quanto si soglia credere. Di qui l’importanza di rileggere oggi, in questo secolo nichilistico, capisaldi del pensiero degli anni ’60, in cui si affrontava il male di vivere con una purezza incontaminata, certi che guardarsi in faccia nulla toglie all’arido vero”, ma molto aggiunge in crescita personale. Non credo onestamente che Berto abbia risolto con la scrittura le sue problematiche esistenziali, perché la vita non si risolve con la scrittura, ma o la si vive o la si scrive, certo ha creato un capolavoro, pietra miliare per chi ancora oggi sa aprire cuore e mente sulla sofferenza umana. La grandezza dell’opera sta nell’apprendere tragicamente attraverso il dolore, nella ricerca interiore che l’autore indica come rimedio a quel male perenne di non sapersi perdonare per delitti mai commessi. La prosa rivoluzionaria lo avvicina a Hemingway, Salinger, Svevo, Joyce e Gadda.