Suite francese (2004) è un romanzo postumo di Irène Némirovsky o meglio – il romanzo che l’ha consacrata al pubblico come uno degli autori da leggere almeno un volta nella vita. Un successo inaspettato e di foggia «fiabesca» se si pensa alla vicenda delle due amate figlie che hanno custodito le preziose carte in una valigia, dove ha “dormito” il romanzo-rivelazione per sessantadue anni. Questo accadeva nel 2004, l’anno della pubblicazione del manoscritto. Dal quel momento si è scritto molto, si sono susseguite le interviste delle figlie, e su Irene è sedimentato un alone di fascino e curiosità.
Suite francese, il titolo non onora la corposità e complessità dell’opera tutta, rimasta incompleta. Nel disegno narrativo dell’autrice c’erano ben cinque volumi; si tratta di un’imponente lavoro che si fermato al 1942, con la deportazione di Némirovsky.
Il romanzo narra le vicende che colpirono i francesi in quel tremendo 1940-42, a partire dalla sconfitta dell’esercito francese, rimasto senza capi né guide, una Parigi ferita durante la “grande disfatta” e del lungo, accaldato esodo dei francesi, spinti dall’invasione nazista a dirigersi a sud, nelle località di Tours, fino all’armistizio di Compiègne.
Sembra difficile quindi fornire una sintesi esaustiva del libro. Piuttosto si traccerà il file rouge che tiene unite le vite dei protagonisti; 3 giugno 1940. In una città eccentrica ma pudica, profumata come può essere solo Parigi a primavera, inizia l’occupazione nazista della Francia. I Pèricand, famiglia della media borghesia, sono colpiti non meno degli altri dalla sciagura. Con cinque figli e il vecchio suocero, tirchio e malato, e il marito lontano, la signora cerca di preservare la sua indole cristiana anche in circostanze di sopravvivenza con scarso successo. Ma la donna, come quasi tutti i membri della famiglia, non è che un’avara opportunista. Come in ogni nido familiare però resta una nicchia in rivolta: sono i due figli, l’adolescente Hubert che, sprezzante del pericolo, fugge per rendersi volontario al fronte, e il figlio maggiore, Philippe: un parroco umile, un puro in mezzo ai folli. Quest’ultimo è considerato da parenti e amici un santo, un martire. Così fuggono nel marasma dell’esodo anche lo scrittore vanesio Gabriel Corte (per il quale la vista della povertà, della disperazione non è che Una brutta scenografia da melodramma) e Florence, l’amante prescelta. Nella schiera dell’incoscienza e del materialismo borghese non cadono invece i coniugi Michaud, impiegati nella banca di Corbin – altra macchietta nera del libro – sono privi di fortuna e diletto, riescono però a non perdere la fiducia e col pensiero rivolto al figlio partito militare – forse fatto prigioniero, peggio morto. Si tratta di Jean Marie, ed è a lui che con fervido coraggio l’autrice affida il compito di salvare la scrittura dall’onta dell’insufficienza, del’insensibilità. E quelle contadine semplici ma civettuole – le sorellastre Madeleine e Cecile – disposte ad aiutare il ferito pur di un sorriso, una carezza. Questo accade nella Tempesta, dove ogni elemento del libro è propriamente trascinato, come in un uragano, altrove, smarrito tra smarriti. Amanti si separano dai compagni, i figli dalle madri, il buon senso e i sentimenti si staccano come la vernice dalle pareti inumidite dal cattivo tempo, o al contrario si recuperano. Non c’è scampo, sembrerebbe al narratore, che non risparmia nessun individuo, è esecrando, violento.
Almeno fino alla seconda parte, quando si arriva a Dolce. Siamo nel 1941. La tempesta si acquieta, ammutolisce e poi si ricarica, lascia il posto alla calma che da sempre la prelude. C’è nel destarsi di un gatto, nel vento ripetuto, nei fiori colmi di pioggia, nella natura giunta alle porte di una nuova estate nella cittadina di Bussy. I francesi prostrati violati nell’animo come smembrate le sono le famiglie, in più devono convivere con lo straniero in divisa. Il nemico entra così nelle abitazioni e le occupa, non solo fisicamente ma portando con sé un’alterità rinnovata che ricorda le altre guerre, altri morti. I tedeschi sono considerati mostruosi e negletti, sulle prime. Si impossessano della quotidianità, cambiandola definitivamente e alcuni francesi li accettano come fossero figli della patria, soggiornanti casuali caduti da chissà dove, mentre i boriosi e gli ignoranti li odiano senza remore, covano vendette. Dappertutto, locandine: Verboten!, Vietato. Le famiglie con una dimora accogliente e spaziosa ricevono l’ordine di dare alloggio ad ufficiali e soldati. Nella famiglia Angellier – composta da Lucile, la moglie di Gaston, e dalla vecchia suocera – alloggia uno dei migliori, il tenente Bruno von Falk, un uomo alto e giovane, educato e di bell’aspetto. Tra Bruno e Lucile si instaura presto un rapporto fatto di dolcezze, sguardi fugaci. Ricordano una tenerezza quasi trattenuta, mai sfacciata, composta. La suocera, la vecchia Angellier non tollera lo straniero venuto ad occupare il posto del caro e lontano figlio – il paffuto Gaston, prigioniero di guerra. Ma quando si accorge del legame autentico tra i due, l’odio nutrito monta a cavallo dell’asprezza. La donna infatti da tempo immemore non tollera la giovane nuora e la disprezza enormemente perché di animo cordiale, avvezza alla lettura. Non le ha dato nemmeno dei nipoti, non ha mai amato il figlio adorato. Nel bel mezzo di una tempesta travolgente, tra occhi indiscreti e velenose spregiudicatezze, si consuma un pasto osceno di sangue ed omertà, viltà e invidia di classe, nella Francia della seconda guerra mondiale. In una suite, all’interno di una fragile bolla di sapone, Lucile e Bruno restano però avulsi, intatti, preservano l’umanità, si riconoscono come esseri civili. Un pianoforte, qualche passeggiata e silenzi gravi, partoriscono segretamente un amore ineffabile, fatto di gesti e di frugali momenti.
Suite francese è suddiviso in due volumi, nei quali l’autrice conduce, quasi tenendo per mano il lettore, nel furore della battaglia, nell’esodo dei civili, quell’inutilità del sangue sprezzante di un conflitto ingiusto, spietato, e poi la scrittrice racconta la meschinità, del possesso dei beni, ancora, della gelosia tra classi sociali, e della disumanizzazione hobbesiana per cui homo homini lupus. Ebbene, infatti in Suite francese non è il tedesco il vero nemico – perlomeno non il solo – ma il proprio vicino di casa. Seppure il nazionalismo viga ancora nel temperamento dei vinti, è con il vincitore che ci si dimentica delle proprie origini, dell’oscena umiliazione di condividere un pasto, o un’ora del giorno con il tedesco, l’invasore. Lo si rinchiude in un vecchio sgabuzzino, chiavistello e catenaccio, il resto perde importanza. Da questo clima di sopravvivenza della e nella tenerezza, le madri francesi ritrovano i figli lontani in una divisa verde del Reich, e in uno sperone una giovane il suono che prelude i passi d’amore. Così, il romantico susseguirsi della tempesta come evento atmosferico e metafora dei conflitti bellici (e non) è il tema trascinatore di tutti gli eventi del libro, accompagna i personaggi alla conclusione. Per Nèmirovsky l’elemento che venga dal cielo – il temporale, il vento, l’acqua che scroscia lievemente, la luna – rappresenta la conferma di una resa. Lasciarsi andare al nemico – così come agli eventi – vale a dire l’uomo non può sottrarsi al destino che qualcuno ha sottoscritto. E la tempesta ha anche un altro valore, quello di scalfire il carattere delle persone. Infatti Nemirovsky scrive a proposito della metamorfosi umana: Il più terribile perché il più vero; non ci si può illudere di conoscere il mare se non lo si è visto nella tempesta come nella quiete. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in tempi simili può dire di conoscerli a fondo, e solo così conosce se stesso.
Némirovsky a questo proposito non salva nessuno, contadini e borghesi come i nobili di stirpe non sono che uguali, egoisti e vergognosamente vigliacchi, simpatizzano per il nemico e si alleano solo con chi è a loro pari.
Ricchi e poveri, dunque sono uniti, citando Verga, dalla “roba”, e durante l’esodo solo per un istante invaso dall’orrore si è dimentichi del denaro, delle porcellane cinesi, della dote come dei testamenti. La casa, non come focolare ma come luogo di vanto, e talvolta di rimostranza sociale ed economica.
I due ampi capitoli, per chiamarli così, si dispiegano con virtù formale, classica e devota ad una disciplina interiore, proiettata forse all’esterno tramite la cura delle descrizioni di personaggi, luoghi, come le case, le piazze, i luoghi teatro orrendo di un cannibalismo morale, spirituale, quello della guerra. Infatti in quelle piazze, nelle cantine come nei giardini dei borghesi e negli orti, là dove si custodisce la normalità del rituale, del gesto ripetuto del nascere del sole e del calare supino, là si crea e si deforma l’essere umano del XX secolo.
In questo caos Némirovsky riesce a generare personaggi compiuti e coerenti. L’eroe del romanzo forse è l’Homo economicus, il signor Michaud; ovvero colui che attende con fiducia che il peggio lo attraversi, senza mutarlo, che la guerra si sciolga in un’altra inevitabile, pace interiore.
Della vita di Irène Némirovsky (1903-1942) si conosce molto poco. Fu, la sua un’esistenza, breve come un soffione. Nata a Kiev in una famiglia di banchieri, nel 1913 costretta insieme alla famiglia ad emigrare. Dopo la fuga a San Pietroburgo nel 1918 riuscì a scampare alla Rivoluzione Russa. Sono anni di rivolte, collisioni politiche, trasformazioni culturali. Restò in Finlandia fino all’anno successivo, poi la Francia, dove rimase fino al 1942, quando venne arrestata e deportata in quanto ebrea; fece battezzare le due figlie per strapparle alla deportazione. Poi la morte di tifo all’interno del campo di concentramento di Auschwitz. L’autrice vanta la fratellanza letteraria con il grande Cechov, fama di cui fu rivestita dai contemporanei scrittori che la ammiravano a tal punto, stimando il valore delle opere come di pari maestosità a quelle del connazionale Cechov. Per molti potrebbe considerarsi un peso ma per l’autrice di David Golder (1929), pare essere il segno fatale di una comune discendenza letteraria di incalcolabile valore.
Curiosità: Il manoscritto di Suite francese fu dato alle stampe nel 2004 dalle figlie della scrittrice, custodito in una vecchia valigia dal 1942, anno nel quale, deportata, interruppe la stesura di quello che è unanimemente definito il suo capolavoro in assoluto, tradotto in circa 30 lingue. Interessante l’intervista alla maggiore delle due figlie Denise Epstein, pubblicata sul blog di Marina Gersony (Elle, dicembre 2009) in cui si ricostruisce il ritratto della scrittrice. Fu grettamente accusata di antisemitismo per il romanzo David Golder, in cui si scagliò contro la borghesia ebraica contemporanea, definendola avara e corrotta. Se vuoi conoscere altre opere dell’autrice sul nostro sito trovi la recensione di Ida (Elliot,2013) e di I cani e i lupi (Adelphi, 2013). Le sue opere sono state pubblicate poi, come Jesabel e Il vino della solitudine dalla casa editrice Adelphi. La forza maggiore di Nemirovsky sta proprio nella sua libertà di scelta, quella di essere una scrittrice i cui libri possono essere accostati, per contenuto e grandezza stilistica, a fianco a quelli dei migliori classici della letteratura francese.
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