“E che altro può essere? Una pazzia discreta, un’ amarezza che soffoca, una dolcezza che alla fine ti salva”. Così disse dell’amore Shakespeare.
Fuoco nelle vene, poi caldo sulla pelle, del sole, di te aggrappata alle mie dita, di te che il mio petto non lo vuoi lasciare. Il caldo della nostra casa immaginaria che sta a metà strada tra il mio posto ed il tuo. Mare in tempesta sul mio viso, poi freddo sulla pelle, freddo sulla patina che sta davanti alla stanca pupilla, sul vuoto di un gesto mancato in una presenza rinunciata. Cerco il posto dei mille sguardi. Cerco nella pazzia discreta esagerata rimpicciolita di quei giorni dove speravo di contare agli occhi di lei.
Dove la carezza era per far incontrare anime e non piaceri, dove lo sguardo era per prendersi sul serio, per scorgere i dettagli di domani. Cerco nella pazzia discreta persa e trovo l’amarezza che soffoca di aver volato da fermo, di essere sembrato qualcuno che non sono. Qualcuno da aiutare, qualcuno da crescere ostinatamente. Eppure nel mio disordine cosmico che da sempre convive in me qualcosa si scusa e qualcosa no. Qualcosa piange per perdere brandelli di futuro sempre sperati, per perdere posti vicini a cui sedersi, e sere perse ad un unica cosa nel cuore.
Qualcosa non piange per coscienza di limiti. Le persone hanno limiti, le macchine ne hanno, le situazioni, il bene ne ha. Così piegarsi con docilità a questi significa essere realisti, essere forti e reggere i colpi. Forse salvare la vita di una persona che andrebbe sprecata. Giorni, mesi, anni e saprò meglio. Fuori dai parametri, dannatamente sbagliato, straordinariamente inutile, io a grattare il pavimento che è più vicino del solito cielo. Sapendo di morire in mille maniere, cercate, trovate. Ad aspettare lo schianto finale, la pausa più lunga della vita dove le lotte non esistono semplicemente lontano…. lontano….Ad aspettare la dolcezza che alla fine ti salva. E che non sia troppo tardi.