Bisogna essere in due per un lavoro ben fatto. Perché da soli, anche se tenti di non farti mancare niente, il niente ti viene comunque a trovare. Bisogna essere in due. E bisogna non essere egoisti. Però quando ci sentiamo nella ragione e vittime di un torto l’istinto dice che dobbiamo esserlo. Andare avanti a testa alta e dimenticarci degli altri. In fondo è l’istinto di sopravvivenza. E siamo giustificati. Forse.
Non so quanti di voi abbiano mai sentito qualcosa strapparsi dentro. Forse molti. La definizione che più si avvicina allo strappo la chiamo punto di non ritorno. Fa sempre male. Strappo. Parte da una delle due estremità o in contemporanea da entrambe e finisce fin dove termina il materiale su cui avviene. Se è tessuto ci può essere ago e filo. Potrebbe aver senso. Se è pelle c’è il tempo a cicatrizzare. Se sono persone a strapparsi via non c’è più niente. Niente che tenga. Niente colle speciali. Intreccio di fili. Solo tempo a peggiorare le cose. Ricordi ad appannarsi. Emozioni risucchiate nel dolore. Quello che era entrato in punta di piedi esce con degli sbattiti.
Cosa c’è da spiegare? Come si fanno poi a far uscire le parole? Chi ti racconterà i tuoi sogni? I miei? Che fine ha fatto l’innocenza? Si mettono in discussione forse gli strappi?
Bisogna essere in due per percepire che ci sia qualcosa di meravigliosamente più grande delle singole cose. Perché da soli, anche se tenti di dedicarti agli altri, ancora non ti appartengono e non possono tirare fuori il meglio da quello che sei. Non ci son altre strade che appartenersi.
Credo agli addii non detti. Non detti per non essere teatrali, conformisti, scontati, ancora speranzosi come tutti gli altri. Credo alle cose che non si riescono a spiegare. Allo stomaco che si chiude. Alla nausea del troppo. Alla forza che comincia a mancare. E non credo al caso.