Ora possiamo inaugurare la stagione delle piogge davanti al computer, stanotte, ricacciati dalle stelle di Agosto nei nostri condomini noiosi e infidi. Una rapida controllata sotto le unghie alla ricerca di tracce di salsedine, un vago gesto a qualcuno che da un altro posto fa trillare il nostro telefono cellulare, una ritirata strategica dal calendario appeso in tre stanze su quattro. Come sono brutte le piastrelle del bagno. Non ci ha fatto niente, il calendario. Ma il tempo sì. Ci ha portato via come niente e nessuno, come neanche un master in America, come neanche la Tav per andare in fabbrica, o un tiro galeotto di troppo nei bagni della scuola.
Ci ha portato via il tempo travestito da stagioni delle piogge, piano. Noi sempre sulla soglia, poi un bel giorno il tempo ci ha preso e portato dove sembrava che avessimo voluto noi. Adesso la pioggia la guardi dal davanzale, una soglia sbagliata per ripartire. Guardi forte qualcosa ma non più qualcuno, ti chiedi “come si torna?”. Qualunque cosa fosse, un poco di buio con respiri o del chiasso di casa. Come si torna?
Sangue, legamenti, fondi da toccare, la toilette dell’autogrill con gli spicci abbandonati sui piattini, unghie troppo rosse, porte sbeccate, le Maldive, il seno e la sua lotta contro la gravità. Quando hai comprato l’ultima bottiglia di vetro per non comprare quella di plastica? Il tuo mondo preferito è qui? Perché emettono più biglietti d’ingresso a pagamento che rimborsi? Ci ha portato via il tempo travestito da rapinatore. Pessimi lucchetti su ponti per pessimi rapporti fuori dai ponti. Un tabellone pieno di partenze, scegli un orario. Sono tutte speranze. Sono tutte in ritardo.
L’interprete, la doppia spunta, il segnale telefonico diminuisce più ti avvicini a posti in cui il segnale sarebbe comunque superfluo, l’inguine bagnato in una delle poche volte in cui non cerchi appigli, le gomitate complici, il ragù rubato dal mestolo di tua madre che dice che non ti vede abbastanza, la diretta, la stagione dei sorrisi in diretta e di quelli trasmessi in differita dai ricordi. Pizzi, pezze, pezzi. Esattamente in quest’ordine. Quanto pensavi che durasse? Dove pensavi che saresti arrivato? Non lo sai neppure tu che guardi ancora forte qualcosa, una qualunque cosa sul tragitto cercando di non inciampare ma non che guardi nell’anima nessuno. E ti chiedi “come si torna?”. Qualunque cosa fosse, avresti voluto inciamparci.
Le corse per i ritardi, quella roba colorata dentro il bicchiere è finita, non sei più divertente, ci vediamo e stammi bene. Zucchero più e zucchero meno: l’amaro che resta non è quello del dessert. Ora non essere categorico, una giravolta, un incidente, un bel respiro a tavoletta, un parcheggio numerato assegnato, le tasse addebitate mensilmente sui respiri. Per rassicurarti. Il tuo mondo preferito è qui. Ma non hai scelta.
Accorciare il temporale e allungare il prestito, allungare la vita sulla strada ed eventualmente anche sotto il temporale e sbandare per sempre magari, lontani dal ciglio magari. Una strada per andare, una strada per tornare magari.
Il vento sposta i piedi del tavolo dove ci sono i nostri progetti, le segreterie telefoniche registrano le nostre promesse. Le domeniche sbandierate, i mercoledì repressi. Crocifissi sul letto, purtroppo non soli, si sorride come si fa l’amore: o bene o male. O ti porta via il tempo oppure sei già via. Agonizzare con un papillon di troppo, con due o tre domande più importanti di quelle parlamentari da fare a una persona sbagliata cioè quella che non vuole sentirle. Farsi prendere come delle porte, però dalla parte sbagliata, quella per uscire.
Farfalline attaccate alla luce, io attaccato alla tua. Fuggiamo insieme dalla stagione delle piogge. Incantesimi. Rifarli a scatola chiusa. Le mani diventano ali e non servono cieli per tornare a casa, per strapparci a qualcosa, a qualcuno, al nulla travestito. Quanta forza ti serve per strappare l’ultima pagina, quanti davanzali sul nulla, quanto sangue e legamenti e sguardi forti per inciampare, finalmente. Per trovare la risposta alla domanda “come si torna?”