Oggi sei settembre 2009 comincio a scrivere di te. Vorrei raccontare al mondo intero dei tuoi occhi capaci di vibrare, della tua bocca che ho sognato tutte le notti, dei tuoi capelli leggeri.
Forse parte da qua la mia confessione. Un amore così bello che nemmeno dio ci avrebbe potuto salvare dalla sua polvere. Già, la polvere. Amore mio.
Tic tac tic tac fanno le mie dita sulla tastiera. Mi diverto quasi. Soprattutto il tasto dello spazio fa un bel rumore. Proprio il rumore di spazio. Spam. Anche tu avevi bisogno di spazio, vero? Potevi farlo anche tu –spam- e mi allontanavi, già, perché non lo hai fatto, anzi sì, lo hai fatto, ma il primo amore non si scorda mai. Non mi scorderai, né io ti scorderò, dolce vita mia, anima perfetta.
Ti ho incontrata in quel caffè, mentre prendevi l’aperitivo con le tue amiche. Erano all’incirca le sette. Ridevi. Chissà che vi raccontavate. Anzi, lo so. La tua migliore amica aveva avuto una storia con il barista, ma adesso lei lo aveva lasciato e vi divertivate a prenderlo in giro e a farlo sentire un merda proprio nel suo locale. Bambine cattive. Non si fa, su. Io invece ero li che prendevo il mio caffè ristretto, sistemavo qualche appunto di Privato e fondamentalmente pensavo ai cazzi miei. Già, ma poi ti ho vista. Mi sono avvicinato. Ciao, scusa avresti da accendere? Si, prego. Mi hai dato da accendere. Ma hai acceso me. Con la benzina. Prima che tu andassi via ti ho chiesto il numero e tu mi hai sorriso. Come faccio a descrivere il tuo sorriso? No, non posso. Mica faccio lo scrittore o il poeta. No, io sono un laureando. Giurisprudenza. Tanta roba. Comunque.
Mi hai dato il tuo numero che ho scritto malamente e sulla copertina del mio quaderno degli appunti. Appena tornato a casa, ti ho chiamata.
Mi hai risposto. Abbiamo parlato. Non mi ricordo cosa ci siamo detti.
Abbiamo fatto l’amore. O forse era sei mesi dopo.
Ci siamo amati di passione, ti ho avuta, mentre il mondo guardava sé stesso fuori dalla finestra della mia camera ed io e te, lì, così, semplicemente per tutta la vita di un attimo, noi, in quel centro, noi ci siamo amati, tu mi hai detto ti amo, ma non quella volta, già prima, ci siamo sempre amati, tutti i giorni, da sempre.
E ora sono qua a parlare di te, a parlare di te a voi, gente, sì, di come un amore nasce, si nutre delle persone, le divora, le lascia appese a un gancio, poi le costringe ad amare di più, fino a sfinirsi, fino alla fine della fine tornando all’inizio della partenza.
Lei mi aveva lasciato. Chissà perché. Me lo aveva detto almeno un milione di volte ma credo di aver rimosso. No, sto scherzando. Mi ricordo tutto. Ti lascio, perché siamo troppo diversi, ti lascio perché non sei come credevo, ti lascio perché, per come, ma come? No tu non mi lasci invece si invece no, l’ho strattonata, tu mi ami ancora, ma cosa dici, sai che è vero, non ti amo, guardami, e il suo viso gridava ed io non capivo, non poteva essere, io e lei era per sempre.
Quello che sento dire in giro è vero. Mi ero appostato sotto casa sua.
Aspettavo.
Nella macchina mi gelavo anche il culo.
Ma aspettavo.
Sono passati due anni.
La chiamavo. Suonava a vuoto. Le mandavo un messaggio. O forse due. Due mila.
Ti sto aspettando, le scrivevo. Vieni giù. O salgo io. Non scendeva lei, né salivo io.
Aspettavo. Mi maceravo. Bestemmiavo.
Poi andavo in università, prendevo il mio 25, prendevo a calci l’aria, prendevo il telefonino.
Dove sei? Ma lei niente e queste cose mi fanno impazzire, poi la vedo, ma forse era un altro giorno, in un bar, prendeva un caffè, era da sola, entro, mi vede, si alza, amore, vattene, no, la prendo, mi scansa, poi esce, vieni qui, la afferro, mi guarda, la bacio, mi uccide.
Mi era sfuggita di nuovo.
Fregavo le sigarette a mia madre, potrei essere accusato di furto, perché non mi accusate di quello?
No, ma a voi che ve ne frega. Voi cosa ne sapete dell’amore? Voi nulla, voi siete quello che avrei potuto essere anche io, ma l’amore fa deragliare, lei mi ha fatto uscire ancora al freddo, forse era l’inverno dopo, ma comunque dopo Natale, ma prima di Capodanno. L’ho seguita ancora, sì, me la volevo fare ancora un’ultima volta, poi basta, tutte le storie che finiscono hanno un ultimo bacio, no? Era lì dentro. In università. Compilava forse dei moduli. Spensi la mia sigaretta.
Poi vidi lui. Le si avvicinava. Le appoggiò la sua mano sudicia sopra la spalla.
Un altro flash.
Lei e lui. In macchina.
Io dietro.
Si baciano. Ancora benzina, sopra il mio collo, che scende lungo il petto, prendo fuoco, ma niente mi uccide.
La chiamo e scende dalla portiera e, vedendo la mia chiamata, spegne il telefono.
Scendo anch’io. La macchina del figlio di puttana se ne va. Lei è lì.
Sola.
Ci sono anch’io.
Solo.
Due anime sole che si trovano faccia a faccia per fare i conti con i propri demoni e poi si amano, ma io ti odio, tu non mi cerchi, come faccio io a sapere che il nostro futuro sarà solo del colore del nostro amore se l’amore è una menzogna?
Sì, l’ho amata. L’ho amata per tutta la notte, per ogni giorno, in ogni via, l’ho sentita piangere di gioia e gridare nell’abbandono.
Potete sbattermi dentro, o spararmi un colpo in testa. Ho ancora un colpo in canna.
Come mi dichiaro?
Mi fate ridere.
Siete così banali.
Ma lo dirò.
Mi dichiaro colpevole, Vostro Onore. L’ho uccisa io.
E se devo dirla tutta, forse nemmeno me ne pento. O lei o io.
Per una volta ho pensato a me stesso.
Matteo Morsetti