Nessun uomo è un’isola. C’è chi lo spera. Chi ci prova. Ma bisogna tirarsi tanto mare addosso ed essere disposti ad affogare parte di sé senza rammarico. Nessuno è davvero tanto sicuro di sé davanti alle disgrazie. Nessuno è tanto sicuro di essere davvero nel giusto davanti a bivi presi da tante persone. E c’è chi sogna tanto lontano perché i piedi sono pigri per portarli. Loìs è penisola e si provoca terremoti per staccarsi dalla terra che gli ha dato una vita fino ad ora. Ha solo un segreto da mantenere. E deve ancora conoscerlo.
Le luci fioche della casa lasciano ombre di parenti su tutte le mura. Profili affaccendati, curvi, o immobili. La notizia è che morirà. Il padre di Loìs sta per lasciare la sua numerosa famiglia. Accanto al letto si aspettano quelli che possono essere gli ultimi attimi. In ogni caso meglio morire in casa, sul letto dove quella famiglia ha avuto origine, che in uno squallido ospedale.
Lo zio Hardy bagna il suo fazzoletto di stoffa che viaggia da taschino a taschino. La zia parla con la mamma su come organizzare il funerale. Gracy deturpa la gonnellina turchese che non si è tolta da quando è rientrata da scuola. Mat è nella sua camera e ascolta musica ad alto volume per non pensare di essere infelice. Berry e Sam sono nel retro a provare qualche lancio. Presto il campionato di baseball comincerà. Le strade sono rosse d’autunno e il primo venticello gelido capovolge le foglie delle querce in rotte per collisioni. Viale corto e infinito per casa senza vita. Esther e la più piccola sono via, dalla nonna, a guardare vecchie foto e sgranocchiare biscotti dolcissimi. Dan, il vicino ficcanaso, entra e chiede se la famiglia ha bisogno di qualcosa. Un’ombra in più, ad apparire sfollata, persa, a deformare il silenzio.
Loìs non sa piangere. E si sente in debito verso il padre perché piangere è la cosa che vorrebbe di più. È’ molto intelligente, ha già intuito la fine di un’era, la più piccola della sua vita. L’era del bambino. La fine di segreti condivisi, dei balzi sul petto, della pesca le domeniche di primavera. Dovrà imparare da solo come si diventa uomo e farlo il più in fretta possibile.
Ci sono momenti in cui vorresti che le tossine scivolino via senza tendere un muscolo. Momenti in cui vorresti sapere la verità subito. Momenti in cui vorresti aver imparato quel che ti serve senza dover vivere prima le fatiche imposte dall’esistenza. Loìs ha solo quattordici anni. E con gli occhi di chi ha un anno in più di tredici guarda ciò che conosce da più tempo sgretolarsi, impassibile, con la curiosità in mano, se quella del padre, fosse stata una vita ben spesa. Non sa di essere in una storia raccontata, sa di essere una storia che andrebbe evitata. Chiusa legata dimenticata. Per casa gira il tè. Si beve e si aspetta. Lo zio Hardy è richiamato da un segnale del braccio del malato terminale, si avvicina, richiude gli occhi per sentire meglio la flebile voce. Due frasi al massimo. Loìs è poggiato all’angolo della stanza e regge tutta la sua stanchezza. Ha parlato di lui, lui c’entra qualcosa in quelle due frasi. Ne è sicuro. Ha visto lo sguardo parlare. Il segreto passa di mano. Ora è nella testa dello zio. La luce cambia, le pupille si dilatano, la stanza si riempie. Come se un segreto non fosse mai esistito.
Il funerale fu breve e solenne con i più cari stretti al vento vicino al sepolcro e i fiori da depositare all’eterna pace. Hardy guardava Loìs senza farsi scorgere. Le ciocche bionde, le lentiggini sparse, quell’aria severa per un bambino della sua età. Provava una simpatia moderata per quel ragazzino, ma senza dargli eccessiva importanza si ripeteva che era il mezzo per arrivare al suo scopo. Hardy era un uomo avido e per questo un vero verme. Ma nessuno voleva accorgersene.
I veri genitori di Loìs avevano avuto grossi problemi economici, non potevano più occuparsi di lui, così una famiglia numerosa, calda e cordiale di New Orleans l’aveva accolto. I genitori erano poi partiti nella loro città natale, Mochico nel Messico, alla ricerca di un lavoro. Con mille promesse e una foto gualcita nel portafogli.
Ora anche il padre adottivo di Loìs l‘aveva lasciato. Con la confusione. La paura. La fitta allo stomaco. La vita era diventata grande e pesante. Sfiorarla con dolcezza sarebbe stato impossibile.
Hardy pensava all’eredità. In punto di morte Charles gli aveva confidato che aveva messo da parte dei soldi per la famiglia e che questi erano dove Loìs e lui andavano a pescare, in una buca sotto una panca di legno. Solo lui ne era a conoscenza. Hardy avrebbe dovuto recuperare i soldi insieme al ragazzo e far andare avanti la famiglia finché si poteva. Il verme invece non l’avrebbe fatto, no. E la famiglia se la sarebbe cavata mandando a lavorare i figli. Avrebbero imparato cosa vuol dire essere al mondo e guadagnarsi le cose con il sudore, cosa che lui aveva fatto per una vita insieme a Charles, senza mai ricevere da parte sua un aumento di salario o una promozione. Ora si sarebbe rifatto. Doveva solo carpire in maniera del tutto innocente a quel ragazzino una semplice informazione.
Ma Loìs non parlava più dal giorno della morte del suo padre adottivo. Loìs è penisola e si provoca terremoti per staccarsi dalla terra che gli ha dato una vita fino ad ora. Ha solo un segreto da mantenere. E deve ancora conoscerlo.
Hardy aveva provato di tutto. L’aveva portato al luna park, al cinema, l’aveva presentato ad altri bambini, aveva giocato con lui, l’aveva portato a pescare, proprio come il padre, con la speranza di estorcere l’informazione. Lo assillava. Sfinito arrivò al punto di minacciarlo. Come se il ragazzo non avesse abbastanza pensieri. Fu allora che cominciò a collegare le parole del padre “mi devi promettere che non dimenticherai mai questo posto”. Avevano inciso i lori nomi sul legno con un coltellino da pesca quella volta.
Ogni giorno lo stesso percorso. Lo stesso autobus. Lo stesso angolo in fondo a destra. La stessa faccia infilata nel libro che ignora il traffico, le pubblicità, i ragazzi chiassosi tipicamente sicuri di sé solo in gruppo. Le cartelle affamate di scartoffie di chi va in ufficio, la musica nelle orecchie dei solitari, le buste della spesa delle vecchie andate al mercato ortofrutticolo il mattino presto facilitate dall’insonnia. Tutto era trascurabile per lei. Tutto sordo e senza attrattiva. La vita è così ripetitiva si diceva, in ogni suo gesto, dal risveglio alla notte, dai sogni alle ambizioni di sempre dell’uomo, dai percorsi fatti per ottenere i desideri. Stava lì come una virgola scomposta, un po’arruffata e un po’ storta con le gambe. In mondi paralleli fatti di lettere stampate su carta economica. Fino a che il bus la fermava davanti alla scuola. Il suo ultimo anno di pellegrinaggio. E c’era sempre stato qualcosa di normale ai suoi occhi in quell’esser ignorata ed evitata. A volte difendi te stesso, anche se non sai da cosa.
Lisa non aveva vere e proprie amiche, ma non perché non fosse in grado di essere una buona amica. Semplicemente la notizia che fosse strana, che vivesse in un mondo tutto suo, aveva fatto il giro della scuola e del vicinato, e il pregiudizio si era incagliato in quelle anime indifferenti dei ragazzi superficiali che la circondavano. Lisa la notte guardava le stelle dall’abbaino. Stringeva ancora i pugni come da bambina e piangeva. Iniziava ad avere sogni.
Loìs la vide per la prima volta in una di quei tragitti mattutini monotoni. Come per tutto il resto non aveva parole. Ma in questo caso avrebbe voluto trovarle. Loìs ha solo quattordici anni. Loìs non sa piangere. E per questo si sente in debito con il dolore.
Fiocca a New Orleans. Strano.
Qualche mese. E decine di viaggi. Loìs la guardava ogni volta, scomposta come sempre, sapendo a memoria che lei non l’avrebbe calcolato, senza cattiveria, immersa nel libro di turno.
Una mattina si decise di seguirla. Avrebbe per la prima volta marinato la scuola. Non sapeva bene il perché. Non sapeva esattamente cosa avrebbe fatto. Ma doveva farlo. Perché anche le isole decidono di muoversi a volte.
L’odore della morte. Lo zio che gli urlava contro. I passi nel vento con le carte raggrinzite di vecchi giornali che volano. La differenza di età tra loro due. Una panchina di pino. Un segreto. Una famiglia senza più volto. Un’altra con il volto distrutto. Il futuro. I voti a scuola. I libri di Lisa. Quelli che leggeva anche lui. Sempre. Andava abbastanza vicino da leggere il titolo con fare disinteressato, peraltro inutile, e poi il giorno dopo lo ritirava nella biblioteca comunale. Leggendo scopriva lei.
La seguì fino al portone di scuola. Poi si sentì mancare. Si girò indietro e fece la strada all’inverso. Piangeva.
Fu in quel momento che tutto cambiò. Per le isole di New Orleans. Nel vento.
Lisa si girò di scatto e corse. Corse a perdifiato. Tirò fuori le mani, corse a prendere tra le braccia quel ragazzino che piangeva. Che come lei iniziava ad avere sogni.
Nulla si dissero. Loìs la portò lì, alla panchina. Perché era venuto il momento di sciogliere i segreti. Il momento di sognare più forte. Aveva pensato a lungo nelle notti. Doveva essere così. Iniziò a scavare. Scavò. Scavò. Lisa non si fece nessuna domanda. Spostò i capelli arruffati, si tirò su le maniche e l’aiutò, finché trovarono la busta con i soldi di famiglia. Si sciacquarono le mani nel lago formando piccole onde. La giornata non prometteva niente, era tutta da fare. Lui, come un grande, serio, la prese per mano. Arrivarono fino alla stazione. Con qualche banconota presa dalla busta fece un biglietto per due per una piccola città. La Louisiana era grande. Si sarebbero certo persi felicemente.
Con la testa poggiata sul finestrino Loìs vide luce negli occhi di Lisa.
Non c’era da esser niente.
La guardò a lungo e spostando lo sguardo per l’imbarazzo le disse: “crescerò”.
Fabio Pinna