Uno
La vita è una guerra e devi scegliere il modo con cui combattere, passare, tracciare il solco, e poi infine lasciare le forze agli altri. Un volo di gabbiano, il sogno fatto insieme, il riso di un bimbo. La vita è un bicchiere di vino, la ragazza della porta accanto, il lavoro d’inferno, le pause, la facilità della morte, l’imprevedibilità delle parole e delle cose. È un passaggio che dai a qualcuno per il resto della tua vita, è essere scaricati in un posto impossibile per ragioni impossibili, innocenze perdute, è sudore e passione. La vita è lacrime trattenute o meno, poco importa. Quel senso che le cose trovano a te secondo l’importanza che dai loro. In fondo angustiati, innamorati, arrabbiati, sani mai del tutto, spaventati e speranzosi siamo mille delle cose che la vita ci insegna ad essere, sempre unici.
A questo pensava Manuela che gli ultimi anni li aveva passati a studiare per quella vocazione che nessuno in famiglia riusciva del tutto ad afferrare, per questo provava ad essere speciale. Trascorrere ogni giorno 7 ore in una clinica psichiatrica, svegliarsi e dare un sorriso a chi ne aveva bisogno. Sì ma come poteva quella ragazza così intelligente sprecarsi in questa maniera? Per dare un sorriso a quelle persone che son considerate diverse, solo un ombra, senza importanza. Quelli che invece a modo loro son soltanto fragili e vivono nella parte oscura della vita, che non si sentono mai a casa, che non si sentono mai giusti, mai pronti, mai abbastanza.
Matteo era uno degli ospiti della clinica Santa Caterina in provincia di Viareggio, uno dei tanti. Non rideva mai, gli occhi brillavano consumati dalle lacrime forse, chi può dirlo, si poggiavano su poche cose la cui altezza non superava il mento. Matteo si era ritagliato un suo mondo, come capita a molti di quelli che soffrono di depressione. Aveva vissuto tante cose, intensamente, perchè lui era fatto così ed era arrivato a trent’ anni con molti segni sulla pelle di dolori passati. Erano cambiate tante cose, tante persone, perfino i luoghi in cui aveva vissuto. Eppure sapeva che quel che portava dentro sarebbe rimasto sempre, parte di lui, e a suo modo quell’essere speciale sarebbe stato parte del suo spirito, del suo modo di muoversi, di trattare gli altri, di prendere la vita, di rispondere a grandi domande. Era da 2 settimane in clinica Matteo e non parlava con nessuno, un’ombra nei corridoi, un’ universo imploso, discorsi sfatti come il letto nel giorno di festa.
«Come stiamo oggi?», si avvicinò Gabriele.
«Come tutti i giorni», rispose Matteo.
Era impossibile iniziare un discorso. Gabriele, uno degli infermieri era stato addestrato anche per questo, eppure con lui falliva.
«Allora oggi facciamo qualcosa di diverso, una bella passeggiata al belvedere?».
«Direi di no».
«Ma perchè?».
«Non ha senso».
«Certo che ha senso, starai meglio all’aria aperta fa bene alle cellule respirare ossigeno fresco».
«Mi dispiace ma il senso delle cose è relativo. E finché non troverò il mio il suo senso delle cose non mi potrà aiutare».
Non faceva una piega, in effetti.
Gabriele tornò in camera dagli altri infermieri e sconsolato parlò di Matteo ai colleghi. Quel ragazzo aveva bisogna di una scossa. Perché le medicine non sono tutto. Non possono sostituire l’ orgoglio di venire fuori dalle brutte cose, la forza di dimenticare le tristezze per ripartire, anche se non sarà per l’ infinito. Anche se sarà solo fino alla prossima ricaduta.
«Perché non ci provi tu Manuela, sei la più simpatica del gruppo».
«Ah certo ora sono la più simpatica? Chi lo dice?».
«…e anche la più paziente».
«Ecco qui ti dò ragione, se sto ancora qui ad ascoltarti un minimo di verità ci deve pur essere!».
«Allora mi prometti che dai un’occhiata al paziente?».
«Certo, scherzavo, lo sai che se posso ben volentieri».
«D’accordo, lo prendo come un favore personale. Ci tengo a questo ragazzo silenzioso e non chiedetemi perché».
Due
«Salve sono Manuela, come sta?».
«Come tutti i giorni, dovreste saperlo ormai» e si voltò Matteo, a guardarla con quegli occhi spenti, per una delle rare volte in cui gli occhi si alzavano così tanto.
«Posso darle del tu? Siamo giovani entrambi».
«Sì, certo».
«Perchè sei qui Matteo?».
«Dovresti saperlo è scritto sulla mia cartella clinica».
«Ma non è tutto sai? A me interessa quel che manca».
«Come sarebbe a dire? C’è anche troppo direi».
«Senti, io so che tu sei un paziente qui e so come si chiama il tuo problema psichico, ma cerco di trattarti come più di un paziente perché sei anzitutto una persona. Allora, perché il ragazzo Matteo è qui?»
«Potrei voler non rispondere».
«Ma se lo farai ti prometto che starai meglio, e ti prometto che non ne parlerò con nessuno».
«Iniziamo con essere sinceri, ti ha mandato qualcuno?».
«Un mio collega è preoccupato, tutto qui».
Fece un segno con la testa come a dire lo sapevo, un gesto silenzioso e misurato. Poi aspettò un minuto, forse due.
«Guardami Matteo, cerco solo Matteo dentro tutto questo silenzio e negazione».
«Sono qui…sono qui per, non so se so il motivo…forse non è uno singolo».
«Ma tu cosa pensi?».
«Che cercavo amore e ci ho sbattuto contro e poi…ho avuto solo l’impressione, solo la forma».
«Ora finisco il turno, ne riparliamo domani pomeriggio d’accordo?».
«Forse».
Tre
Molte cose iniziano quando inizia un rapporto e molte ne finiscono quando finisce. Non è solo ciò che si possiede in comune, che comunque in molti casi è tanto, una casa, le cose, una macchina, la voglia del futuro condiviso, i sogni. È anche quel che personalmente ci costruiamo dentro che viene messo in discussione. Perché si è lavorato a un progetto dedicando tempo, sforzi, cambiando atteggiamenti, modi di pensare e agire, ci si è parzialmente cambiati per venire incontro all’altra persona smussando i nostri angoli, imparando a dare quello che può davvero servire all’altro. È un lavoro silenzioso in cui ci sei tu a costruire qualcosa di nuovo per creare un nuovo equilibrio dentro di te. Così quando tutto si sgretola viene meno un nostro nuovo modo di essere, la nostra meta, e gli sforzi diventano nulli invalidati dimenticati.
«È per una ragazza è così?».
«Sì, ti assomiglia pure».
«Vuoi parlarne?».
«È sparita, forse perchè ha paura che io non possa darle abbastanza, per via del mio essere diverso..»
«Tu sei diverso come me, siamo tutti diversi, e tutti speciali, anche se qualcuno meglio di un’altro forse c’ è vedendo certi comportamenti…»
«Allora aveva paura che non potessi darle abbastanza, è comprensibile».
«Ma anche sbagliato, non credi?».
«Non ha importanza cosa sia giusto, le persone fanno scelte in base a cosa sembra loro e portano le conseguenza per tutta la vita, spesso. Siamo liberi, siamo spezzati, rotti, insicuri. Colpevoli e innocenti allo stesso tempo».
Manuela comprese che per Matteo la parola amore era davvero grande e ammirava questo suo tendere all’amore infinito, arrotondare sempre per eccesso. Ben presto cominciarono a parlare ogni pomeriggio. Matteo stava effettivamente meglio. Non si era fatto un’idea di Manuela nè gli interessava farsene una, non esisteva più nessuno per lui, neanche gli amici. Solo un mondo scarno pieno di scenografia e luci colorate per poveri cristi con dietro un dolore a ogni nuova ispirazione. Manuela se pensava a quanto gli aveva detto Matteo nelle ultime settimane non poteva che essere soddisfatta di come era riuscita a far aprire il ragazzo che ora si fidava di lei. Era riuscita a costruire qualcosa. Cosa non sapeva dirlo, ma era strano pensarci anche fuori dall’orario di lavoro o sentire che tra tutte le conversazione del fine settimana mancava quella con Matteo e desiderare vedere i suoi occhi grigi spenti e la barba sfatta. Sentirlo parlare della sua visione della vita, precipitare nelle sue ombre. Sì era strano.
Quattro
«Cos’ha mia sorella che la vedo sempre agitata?», chiese Manuela alla madre. Disse “sorella”, come sempre, il loro rapporto non presupponeva nulla di più. Ignorava praticamente tutto di lei, le dispiaceva ma non era il tipo di sorella avvicinabile. Sempre stata introversa e sfuggente.
«Si è lasciata con il ragazzo».
«Ah, mi dispiace e da quando?».
«Sará due mesi, ma ancora non ne è venuta fuori completamente» disse svitando la caffettiera.
Manuela non sapeva assolutamente di quella storia ovviamente, si era solo accorta che qualcosa non andava incrociandola in cucina per i pasti.Non aveva consigli d’altronde nè poteva essere d’aiuto.
Passarono due settimane di duro lavoro in clinica, il solito tram tram e in più qualche sostituzione. Manuela continuava a parlare con Matteo senza dirgli nulla di lei ovviamente per mantenere quella distanza tra paziente e professionista. Eppure un giorno uscirono a fare una passeggiata, cosa che non sembrò vero a nessuno del team di infermieri e tutti scommisero che Matteo si era innamorato. Una specie di bisca clandestina virtuale, avevano anche preparato le battutine da fare a Manuela al rientro della passeggiata.
Matteo si era sporto immobile sui pensieri di lei senza farci caso e la sua vicinanza creava in lei un qualcosa di strano fuori dall’ ambito professionale. Questo confondeva le cose e non poteva essere, non doveva essere.
«Cosa pensi?».
«Ai successi della mia vita, uno sei stato tu oggi» disse giocosamente lei.
Matteo si abbandonò a una debole risata. Sì, era stato un evento straordinario.
«Ti devo ringraziare, mi hai fatto ritrovare me stesso».
«Io, come?».
«Le tue domande. Mi mettono a nudo e mi costringono a pensare su cosa ho sbagliato e sto sbagliando. Da solo non ci sarei riuscito».
«Ne son felice, davvero».
«Anche io. Ho trovato la mia stabilità. Ho fatto la mia parte. Mi son promesso di stare meglio perché me lo merito, in fondo.E c’ è ancora tanto da fare e da dare, da domani.
«Da oggi!».
«D’accordo da oggi». Le prese la mano. No, solo nei pensieri. Stavano tornando in clinica. Pesava la sera. Pesavano le cose non dette.
Cinque
Aveva con ordine preparato le sue valigie. Il taxi lo aspettava fuori. Voleva prima salutarla, sentire la sua leggerezza, l’autoritá delle sue parole, la benevolenza del tono, specchiarsi nella sua pelle bianca.
«Prenditi cura di te» disse Manuela. Voleva dirgli qualcosa di diverso. Per esempio, ti prego diamoci una possibilità.
Le parole non uscivano, era troppo difficile da ammettere, era troppo, forse.
Lui la guardava fiero, come se lui stesso fosse una sua creatura, pieno di speranza. Lui aveva capito ogni sillaba taciuta.
«Hai lo stesso sguardo di tua sorella».
Improvvisamente Manuela capì e si sentì rimpicciolire, un colpo ingiusto, uno di quelli che la vita assesta senza motivo. Non c’era posto per loro, da nessuna parte ma avrebbe dovuto esserci.
Lui aveva capito appena la vide quel primo giorno. Le cose non vanno come vogliamo che vadano, come è forse giusto che vadano, molto spesso.
Avevano entrambi condiviso qualcosa che in anima sarebbe esistito per sempre.