Oggi è nata Monica. E’ alta un metro e 72. Ed io impreparato, libero, dal concetto contatto, amicizia, dal sorriso. I suoi capelli si incastrano nelle maglie larghe del maglione. Una delle poche cose che lascio lì. Giro intorno a lei. Guardo come guarda, sento cosa pensa, prendo quel che è lì per lasciare. C’è una sedia in plastica verde laggiù. L’ombra la prende tutta. Sconsolata, la sedia mi appartiene. Mi piego e ricordo. Non ho vinto con me stesso, nè con gli altri. Ma se avessi saputo della tua nascita, oggi, non sarei qui. Ma a offrirti un gelato di fine stagione. E’ questo quel tanto che ti prometto sottovoce.
Il viaggio verso il terzo piano è stato di sfuggita e di nascoste lacrime. Le sirene. Mi hanno fatto spaventare, disteso su quel lettino con le cinghie strette forti. Come se a quel punto potessi scappare. Poi dalla barella al letto. Qui le corsie sono chiuse a chiave e l’accesso è unico. Per entrare, anche se tu fossi Ciampi, devi suonare il campanello, guardare la videocamera e aspettare che un infermiere si avvicini a chiederti chi sei e cosa vuoi.
All’ingresso mi hanno tolto i lacci, la cintura, le lamette per radermi, la lacca, le scarpe.
L’uso del cellulare è consentito fino alle ore 21. Lo fanno per me, ripetono.
Dal terzo piano si vede poco. Ci sono i grandi tubi che trasportano l’aria calda per tutti i piani. Le terrazze piane con gli angoli sporchi di polvere. Il refertorio, la sala da pranzo è l’unico luogo adibito a qualsiasi attività ricreativa concessa. E’ l’unico posto dove puoi sentire il rumore delle sirene delle ambulanze confondersi con quelle del telegiornale. Vero con vero.
Poi il silenzio impazza. Sconcerta. Piega. Per una mano tesa invisibile aldilà di chi la coglie, il male che senti. Che vedi. Tocchi, che fermi l’attesa dell’attimo di sofferenza soffocata dal tempo. A tutti noi. Che va uccisa. Non ci cambierà una virgola. Fremi per sparire. Per sottrarti al peso di questo mucchio di cose inutili che girano veloci là fuori. Ma niente.
Non sò più che fare di tutto questo. Prendilo tu. Monica si avvicina, mi prende il braccio e sfuggono lacrime leggere su questo angolo di stanza. Il rumore del vento è sporco. Tutti a modo loro lottano. Il terzo piano è lontano dal centro, dal parco, dall’edicola, dal cinema, dalla gelateria. Chi stringe la federa del cuscino. Chi fissa il muro per ore o il pavimento lucido. L’odore di sovraffollamento in camera la notte.
Monica mi passa la mano sul cuore, dice che guarisce anche quando è molto spezzettato. Non lo so. Non voglio. Non riuscirò.
Monica è l’unica donna vestita completamente di bianco coi risvolti del colletto azzurri ad essere la mia famiglia.
Così, blu cobalto, gli occhi verso.
In bilico tutta la giornata di Dio. E luce che ti salta dagli occhi potrebbe diventare la finestra della 324, che mi tiene. Basta che lo dici e destinazioni del tuo ridere potrebbero diventare una 324 ancora troppo vuota senza e per l’abbraccio. Basta che lo dici, in bilico. Stare fuori dalla porta dei tuoi sogni, stare dentro la fine dei miei. Gli occhi sempre riversi al buco alto blu di blu cobalto pieno di.