Ci sono viaggi e viaggi. Quelli che non arrivi mai perché non sai che strada prendere, quelli immaginari, quelli talmente scontati da voler chiudere gli occhi, quelli che non sai dove si va a finire e ti va bene così in fondo. I viaggi veri non lasciano mai la mente. Questo l’ho capito.
Preferisco guidare la notte quando il rumore delle ruote si confonde con quello della musica. Poi quel puntino sul navigatore che si muove annoiato. I mezzi pesanti parcheggiati nelle stazioni di servizio. L’odore di gasolio. Le fabbriche che non dormono mai coi loro fumi tossici. Le coltri nascondono persone che fanno i turni. L’inserviente alla pompa di benzina all’Autogrill semi addormentato e la donna delle pulizie nel bagno che spera in una moneta. L’aria che punge. E’ un viaggio che conosco a memoria. Eppure vedo qualcosa di nuovo. E quel qualcosa sono io. L’ho fatto col sorriso stampato in faccia, un sorriso diverso dal solito, sereno. Un sorriso di quelli che aspettano qualcosa. La piccola utilitaria litigava con le salite, con i colpi di vento, con quel piccolo motore da cui di più non si poteva spremere. C’è chi dice che la cosa più bella del viaggiare sia il viaggio stesso e non la destinazione. Niente di più vero. Ma in questo caso questa semplice regola si è annullata. Il motivo del viaggio era più importante del viaggio e della destinazione. Dietro un angolo tu con il berretto al vento sei diventata il motivo più bello. E ti mancava il coraggio di guardarmi in viso, e parlavi tanto, muovevi frenetica le mani. Dopo sei ore di mani sulle vibrazioni del volante finalmente fermo a guardarti come se sapessi tutto di te.
Fermo. Immagine. Disinnescato. Perso. A distanza di due mesi l’odore non è più lo stesso. Le scie lasciate si sono perse, le scintille spente, le costellazioni spostate, gli occhi evaporati. Crollano i mondi di cartone colorato fatto di pezze e scatole di discount sporco. Gela l’inverno senza pietà per le nostre voglie, si spacca la pelle delle nocche di pugni che rimbalzano sempre indietro nel vuoto. Ora che hai da raccontarti chi non sono e chi non son stato capace di essere. Ora che ripulisco la casa da te, raddrizzo i quadri, bevo e dimentico, e vale tutto per un’ora come il ticket del parcheggio. Che sai tu di dove finisco? Volontà impiccate in gola, squarci invisibili, lacrime a metà strada. E poi?
Trattenersi da urlare, avvelenarsi di sogni andati a male, prenderti come pazza e dare un calcio al resto che poi a che serve stare bene con gli altri, cosa servono le pettinature e gli abiti stirati. Ora che serve ricordarti se non per continuare a sputare vita da calpestare con le scarpe e sentirsi piccoli e sbagliati come in fondo sempre. Ci sono viaggi che non fermi. Viaggi di fibre, di muscoli che si svegliano ogni mattina solo con un caffè e una casa vuota, viaggi di denti che sperano di trovare il motivo per scoprirsi. Il motivo per continuare i progetti a metà. E sentirsi abbastanza cattivi e acidi per far parte di questo mondo. Abbastanza soli da far parte della media. Abbastanza indaffarati per non pensare alle cose davvero importanti, alle persone davvero importanti. Qualcosa ci deve sempre bruciare in fondo alla pancia, sbattere le dita spazientite, qualcosa deve isolarci, farci sbattere le porte. Che poi ti ricordi che il motivo del viaggio era più importante del viaggio e della destinazione e l’hai barattato con quel che ti resta di te. Che forse può non bastare.
Folle corsa. Festa. Autostrade. Mani. Letti. Gerundio, infinito, passato remoto. Niente.
Ho pensato che da qualche parte devono andare a finire tutte le cose belle. E quel posto non sei tu. Niente.