
Autore: Milan Kundera
Pubblicato da Adelphi - Febbraio 1998
Pagine: 273 - Genere: Narrativa, Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Brossura, Copertina Rigida, eBook
Collana: Gli Adelphi
ISBN: 9788845913549
ASIN: B09ZY94SDB

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Un "romanzo in forma di variazioni" calamitato da un tema: "la lotta dell'uomo contro il potere e la lotta della memoria contro l'oblio".

«Tamina, non dire bugie. Non si comincia un lungo viaggio senza sapere dove si va […]»
Una misticanza di fermi immagine oscillano placidi tra le pagine di questo testo esigente, come una barca che, tolti gli ormeggi, si disponga a salpare. Ad attenderla il più insidioso dei viaggi: quello al cuore mai pacificato di ogni essere umano, animale schizofrenico e sventurato attraversato da un’indomita frenesia di controllo sul passato e sul futuro, che da questa tensione fabbrica a posteriori la parvenza illusoria di un presente per il proprio mondo pericolante.
Accade tutto dentro, nella testa: è questo l’unico incubatore capace di contenere la materia evanescente racchiusa nella bisaccia della memoria, per maneggiare la quale il riso (cui il titolo rimanda), ossia la considerazione distaccata e autoironica della voragine nella quale le umane certezze sono in eterno procinto di precipitare, costituisce la sola chiave di accesso possibile.
Per andare al fondo di questa débâcle fondativa di ogni Io, bisogna scendere nel pozzo che Milan Kundera scruta nella parte sesta. Farlo in cordata sarebbe impossibile, non resta quindi che procedere battendo ciascuno la propria strada, abbandonando ogni pretesa di farsi guida altrui. Dentro al buco nero delle umane illusioni, dove il sottaciuto sopravanza la sterile logorrea, troviamo Tamina, la protagonista. E Praga, città sotto assedio culturale prima ancora che politico. Da questi due poli si dipartono le numerose digressioni narrative che, ben più che aggiungere elementi al quadro complessivo, lo colorano mettendone in risalto il messaggio di fondo, afferrare il quale spetta sempre e comunque al Lettore.
Pubblicato per la prima volta nel 1978, Il libro del riso e dell’oblio è indiscutibilmente di un testo non semplice, alcuni passaggi del quale potrebbero richiedere una rilettura per assaporare l’attualità di temi e di forme che quattro decadi trascorse non hanno scalfito.
Capace di farci penetrare tra le pieghe di ciò che resta della “primavera di Praga”, di una svolta possibile eppure tradita, nella duplice accezione di “sabotata” e “trasmessa”, con la caratteristica sensibilità coloristica del maestro di Brno.
Chi vuol ricordare non deve starsene fermo e aspettare che i ricordi vengano da soli fino a lui.
Una sottile inquietudine pervade le pagine de Il libro del riso e dell’oblio, prendendo voce a più riprese dalle bocche dei personaggi, foriere di un messaggio opaco e disturbante, gravato di rimandi e simbolismi tra i quali destreggiarsi: ciò che àncora ciascun essere umano alla propria individualità sarebbe nulla più che un autoinganno, un frullo d’ali nella notte della percezione di sé, un’intera vita ricostruita a partire dal nulla.
A essere messa in pericolo è la stessa integrità psichica dei personaggi, le cui traiettorie esistenziali vengono colte nell’atto di bivaccare lungo le pagine del libro, come esuli incattiviti da un presente che si è dimenticato di loro.
Rimane intenzionalmente fuori fuoco il Tempo, famelico convitato di pietra di un’adunanza di quadri confezionati con quella che potrebbe passare a prima vista per glaciale indifferenza da parte del Narratore, come se questi covasse un distacco rancoroso dalla stessa materia del narrare: non serve nascondere che muoversi al suo interno richiederà una buona dose di tenacia e spirito analitico a chi voglia cimentarvisi.
La ricompensa, d’altronde, giustifica ampiamente gli sforzi dei più coraggiosi: pochi altri testi trattano con tanta sfrontatezza la diade memoria / oblio, l’oceano di dolore nel quale questi acerrimi contendenti si danno eterna lotta nell’agone della costruzione di un senso che va difeso attimo per attimo, perché non abbia a capitolare sotto i colpi di un relativismo vigliacco e mortifero, vorace predatore di presenti ormai passati.
Le parole come unica arma per divincolarsi da esistenze opache, lasciate indietro dal fracasso del mondo nell’indistinto nel quale ogni tormento è bidimensionale, anestetico. Parole ermetiche, autoconclusive, feroci. Maestre nel rendere il senso di sconfitta del Singolo davanti alle tragedie di una Storia che viene vista nello specchietto retrovisore di un veicolo senza pilota. Si inserisce in questa cornice la trattazione dell’arco semantico della lítost, parola di origine ceca indicante il senso di scacco invincibile nel quale precipitano i personaggi del libro, per colmo di sventura proprio nell’istante in cui essi raggiungono la consapevolezza dell’intima disproporzione tra i loro sogni e i loro bisogni.
Tra ciò a cui aspirano e ciò che può ancora tenerli in vita.
Rifletta un momento su che cosa è un romanzo. Una moltitudine di personaggi differenti. E lei vuole farci credere che sa tutto di loro?
Approfondimento
Una volta prese le proverbiali misure al realismo magico del maestro ceco, ci si trova davanti a un impianto narrativo il cui fascino promana dalla granitica certezza che anche la sinfonia più complicata possa farsi linguaggio, come è lo stesso Autore a sostenere sul finire.
Che cosa poi possa veicolare, questo linguaggio, è faccenda delicata, lungi dal poter essere liquidata con giudizi sommari e formule sbrigative.
Perché, al di là e al di sopra delle vicende narrate, per altro con una capacità di ellissi che conferisce alla scrittura una tempra onirica e la avvicina per certi versi al discorso cinematografico, si impone l’angoscia muta dei personaggi, chiusi nell’illusione di poter fare la differenza con le loro scelte, forse persino di poter scegliere. Consumati nel sogno patetico di tracciare una fantageografia della propria esistenza, di resistere allo sfacelo dell’oblio che tutto reclama e tutto fagocita, di sollevare il velo del fantasma di ciò che, fino a quel preciso istante, avevano creduto di essere.
Di ciò che, in quello stesso istante, li assale l’incubo di non essere mai stati.
Gli uomini vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato.