
Autore: Carmen Pellegrino
Pubblicato da La nave di Teseo - Febbraio 2021
Pagine: 160 - Genere: Narrativa Italiana
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Oceani
ISBN: 9788834605189
ASIN: B08VKLT1BH

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Una solitudine gravida di ombre. Un’infanzia scippata.
Un’ode a ciò che di solito rimane relegato al margine del romanzo, all’importanza del sottaciuto, del silenzio, della sospensione del giudizio, del prendere fiato prima di intonare il canto.

Dicono che ci sia un posto nel mondo per ciascuno di noi e a quello tendiamo senza sosta, anche se non si sa dove sia, anche se non abbiamo le coordinate per raggiungerlo e non ci sono mappe a indicarcelo.
La vicenda narrata in La felicità degli altri prende le mosse da un’infanzia interrotta, negata, da una famiglia funestata da incessanti liti furibonde, tra una madre nevrotica e un padre trasparente: una vicenda esistenziale condensata in un percorso singhiozzi, quello della protagonista, del quale Carmen Pellegrino si affretta a dichiarare sin dalle prime pagine il senso, perché “ciò che resta in ombra si abitua a non essere guardato”.
Una solitudine gravida di ombre e affollata di voci, quella della protagonista Clotilde/Cloe, donna d’età indefinita abbandonata a dieci anni in una casa famiglia, con un aborto alle spalle e un matrimonio frantumatosi sul nascere, immersa in un presente lavorativo stimolante ma sostanzialmente bidimensionale, eternamente sulle tracce di sé stessa.
Ma, e qui la Pellegrino assesta la prima stoccata vincente, per carpire quella “certezza autofermentativa” che sola sarebbe capace di fare rifiorire il deserto in lei, Cloe non si limita a ricercare coordinate che rimandino alla rassicurante certezza di presenze, luoghi, persone. Al contrario, l’attenzione si volge a fotografare un’assenza straordinariamente presente, investigata lungo pagine grondanti silenzio intrise fino all’inverosimile dell’angoscia di chi stringe tra le mani i cocci del proprio passato, di chi sa che ciò che residua ai propri passi rimarrà sepolto sotto cumuli di reticenze e che la felicità rimarrà sempre e soltanto appannaggio degli altri.
È tenendo in mente questo che è possibile interpretare il coraggio della protagonista, alle prese con la più tremenda e insieme indifferibile delle “anastilosi”, ossia delle ricostruzioni: quella umana, possibile unicamente a partire dalle macerie della propria vita. Una vita alla disperata ricerca di un punto saldo di osservazione al quale svelare la voragine insondabile di silenzio che le si è aperta dentro, per mezzo del quale rinascere in una fine maieutica definitoria che agisce per sottrazioni successive, come lo scalpello di uno scultore rimuove il superfluo per partorire alla luce il nascosto che è sempre esistito ingabbiato al suo interno. Una vita che anela ad aprirsi a uno sguardo decentrato, focalizzato e corale al tempo stesso, che possa, scrutandola, fungerle da specchio, raccontarla restituendola a sé stessa.
I personaggi si presentano attraverso l’alchimia di parole e descrizioni improntate a un espressionismo minimalista che ben veicola l’atmosfera diafana nella quale si incastonano, con il tema dell’incomunicabilità a infilzare trasversalmente gli scambi verbali, trascorsa l’onda dei quali nulla o quasi sembra mutare.
Il tempo viene trattato con inusitata e significativa rudezza, forse perché è proprio contro la sua azione implacabile che si erge la protagonista: la stessa orchestrazione dell’intreccio è come se si facesse beffe del dio Crono, con continui arditissimi flashback. Questi, se da una parte costringono inizialmente il lettore a fare gli straordinari per accostare i tasselli, dall’altra mimano la modalità, del tutto fuori dal comune, attraverso la quale Cloe seguita a collezionare brandelli del suo oscuro passato segnato dal brutale trauma infantile dell’abbandono da parte della madre e dalla lenta presa di coscienza di un distacco, quello dalla propria famiglia, cominciato ben prima, tra le mura domestiche.
I numerosi salti temporali rendono non sempre agevole seguire lo sviluppo della narrazione, senza il quale però è impossibile toccare il fondo del senso di una distanza incolmabile e oltrepassare l’orizzonte degli eventi che separa dal buco nero di un’esistenza senza requie, in un movimento che ricorda quello di una fionda tesa allo spasimo.
Va detto comunque, a supporto della credibilità complessiva della vicenda per come narrata, che non deve essere affatto facile partire senza nulla nello zaino che non siano tanta rabbia e poche immagini sbiadite e sconnesse raccattate in circostanze imponderabili, con in mano le quali inerpicarsi in un viaggio alla ricerca di sé stessi. Viaggio che Cloe non potrà esimersi dall’intraprendere, accettandone i pericoli impliciti sostenuta dalla cieca urgenza della verità, come chi, apprestandosi a ghermire una rosa, non si faccia intimorire dalle spine in nome del profumo.
La felicità degli altri è un libro da assaporare tutto d’un fiato per lasciarsi travolgere dall’urgenza di autoscandaglio di un personaggio che azzardo a ritenere abbia gli occhi dello stesso colore dell’autrice, con alle spalle un’innata curiosità verso i luoghi abbandonati e che ha dato ripetuta prova di saperli esplorare cogliendone l’anima sedimentata al fondo dei loro accidenti, senza strapparli al loro mondo, rispettandone sempre l’aura di ineffabile impenetrabilità.
La felicità degli altri è un ponte tibetano gettato tra il ripiegamento intimista dei vinti e la tensione scopritrice di chi, nonostante tutto, non rinuncia all’ardire di (ri)scoprirsi vivo, di spiccare una capriola al rallentatore dei ricordi per svincolarsi dall’inania di un tempo sospeso nel quale è impossibile posare il capo.
Approfondimento
Lo stile narrativo conferisce alla vicenda un’atmosfera da sogno nel quale si snoda man mano, evanescente come una solitudine, l’universo sofferto di un passato mai del tutto passato, che pian piano conquista mente e cuore del lettore nella misura in cui l’autrice insiste ad aggiungere tasselli su tasselli in forma di attraversamenti funambolici dello spazio e del tempo. In questo quadro amorfo ripiegamento intimista e tensione scopritrice intrattengono una verace conversazione tutt’altro che scontata.
La trama, pur non spiccando per originalità, viene riscattata da una penna soave che rende accessibile quanto solitamente rimane fuori fuoco: emerge quella impalpabile trama di sottintesi che costellano il senso di resa di fronte agli insuccessi della vita. La prosa si dipana alternando tratti dichiaratamente involuti, intessuti di un’ampia distesa di riflessioni filosofiche mai banali (da Esiodo a Novalis, da Seneca a Borges, da Hölderlin a Mallarmé), ad altri di raffinato lirismo rievocativo, riuscendo nella mimesi allucinata dello stream of consciousness. Sul piano lessicale spicca per singolarissima potenza la capacità di evocare universi semantici collaterali sottesi a parole dalla comune accezione, frutto raro di una pregevole capacità di selezione e sublimazione da parte dell’Autrice.
L’atmosfera indefinita, a tratti claustrofobica, attorno alla quale ruota la narrazione, si impone per i suoi connotati vieppiù desolanti, figurando contaminata da un oscuro inconfessabile peccato: il lettore può risultarne spiazzato in apertura e dovrà necessariamente dare prova di possedere almeno una briciola del coraggio della protagonista per proseguire nella lettura. Ne verrà ripagato nella misura in cui darà tempo alle pagine di erigere una serie di spirali concentriche che con un accorto dosaggio dei tempi narrativi puntano al nocciolo di un’esistenza vissuta solo a metà, incapace di sfiorare un’alterità invalicabile, di sottrarsi alla tendenza autodistruttiva a moltiplicare attorno a sé il rifiuto primigenio dalla quale si è sentita respingere.
La scia conflittuale del rapporto negato con la madre, prostrata da una sofferenza psichica, intride l’intero romanzo: a essa Cloe addossa la responsabilità del proprio allontanamento dal nido familiare, un dolore indicibile, al quale si somma quello della perdita del fratellino Emanuel, un dolore che Cloe non vuole metabolizzare ma attraversare.
Vi riuscirà solo a patto di guardare in faccia i propri sensi di colpa, di dar loro il nome che hanno sempre avuto, in una dinamica evolutiva che scompaginerà certezze inizialmente incrollabili, con esiti sorprendenti.
La Casa dei Timidi, la casa famiglia retta dal duo di custodi Generale e Madame, accoglie come un caldo abbraccio la piccola transfuga restituendole una parvenza di familiarità all’interno della quale proseguire la propria esistenza ferita. Quella casa, che Cloe abbandonerà non appena sopraggiunta la maturità, rimarrà sempre il palcoscenico sentimentale della narrazione, dove infine non mancherà di fare ritorno per svelare un mistero emerso dalle nebbie del tempo.
Affascinante la figura austera e ieratica del Professor T., un po’ padre putativo un po’ mentore, che insegna estetica dell’ombra a Venezia, nella cui introversa umanità scevra da compiacimenti accademici Cloe si riconosce e riconosce un’affinità elettiva dirompente, finendo per intrecciare con lui una corrispondenza che si distende a più riprese lungo l’intero arco narrativo, senza alcuna soluzione di continuità, fino all’epilogo inaspettato.
I dialoghi tra i due sono scorrevoli e arricchiscono i rispettivi ritratti in maniera leggera; sul loro fondale si staglia il dagherrotipo di Cloe, che le citazioni argute del Professor T. instraderà verso una meta di consapevolezza vasta al punto di accogliere la zona d’ombra che noi tutti ci portiamo dentro, come un grembo una vita nuova.
Assolutamente degna di menzione la valenza immaginifica dei suggestivi scorci lagunari, nei quali sembra risuonare l’eco dei passi affiancati di Cloe e del Professor T., con la bruma notturna che dall’intrico dei canali si solleva come un sipario su di un dolore non più negato ma vissuto, partecipato, redento.
La rievocazione mnemonica di luoghi e personaggi disegna sulla pagina uno spaccato di vita dimesso e frugale: immagini come in un sogno si succedono, spazi angusti e malsani, mentre personaggi sfuggenti come epifanie spettrali si fanno inopinatamente strada con una corporeità che non mancherà di intrigare il lettore.
In questo carrellata minimalista assurgono ad autentico romanzo nel romanzo i dialoghi architettati come feritoie nella testa dei personaggi, sovente infarciti di rimandi alla letteratura e alla mitologia classica, così come a pagine bibliche d’irresistibile presa (quale quella della sofferenza in Giobbe).
Ho apprezzato la caparbietà con la quale la protagonista si mette sulla traccia dei sui primi anni, affastellando incontri, ricordi, suggestioni, con cui alterna la volontà di fermarsi a quella di riprendere a correre verso un passato al quale sente pressante il bisogno di restituire dignità: una lezione da trarre per la modernità sconquassata nella quale affoghiamo ogni giorno.
Perché siamo tutti un po’ Cloe, avvertiamo tutti dentro un insondabile bisogno di dialogo con la nostra parte oscura, di inoltrarci lungo un sentiero accidentato che ci riconduca alle sorgenti del nostro essere attraverso una molteplicità di cammini, chi ferendosi i piedi sui sassi aguzzi, chi levandosi in volo sospinto dal potere liberante di una parola. Rinunciando alla più abietta delle tentazioni: quella di lastricarlo di pregiudizi.
Per quante strade si percorrano, per quante se ne cambino, arriverà il momento di prendere per quella via che darà senso alle altre. E non importa dove e perché ti sei perso. C’è un varco da cercare, erto, nascosto oppure sconciamente evidente […]. Lo attraverserai e ti ritroverai là dove si ricrea qualcosa; senza accorgertene ti ritroverai in un nuovo inizio.
Forse è proprio questa la cifra di La felicità degli altri, il movente che muove la mano dell’autrice: affermare con fermezza che è sempre possibile ricominciare, che nulla potrà strappar via la sottile trama di speranza che pervade anche le pagine più buie, che è possibile fare pace con il proprio senso di fallimento, non tregua si badi bene, bensì nulla di meno della pace, e più ancora farne tesoro, consapevoli che a partire da questo grumo infame ci sarà sempre spazio per un nuovo inizio, per mille splendidi inizi.
A due condizioni: tendere l’orecchio, per mettersi in ascolto, e tendere la mano, per afferrarsi saldamente, con coraggio, e non lasciarsi volar via.
Sull’agenda ancora intatta, alla data del 23 gennaio, segnai: “Inizio convivenza con me. Funzionerà?”
Dario Filardo