Autore: G. L. Barone
Pubblicato da Newton Compton - Marzo 2019
Pagine: 336 - Genere: Thriller storico
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Nuova Narrativa Newton
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Venezia, diciottesimo secolo. Eliardo de Broglie, un truffatore di poco conto, viene incriminato per l'assassinio di un nobile veneziano. Aiutato nella fuga da una nobildonna francese, per ripagare la gentilezza d'avergli salvato la vita, l'aiuterà nella ricerca di un manufatto alchemico a lei sottratto in tempi remoti. La ricerca si rivelerà più pericolosa del previsto, e solo la proverbiale punta di un gigantesco iceberg di intrighi le cui matasse si srotolano e si ingarbugliano da tempi antichissimi.
Ci sono due categorie di persone che vanno al cinema.
E fino a una trentina d’anni fa c’erano anche due categorie di sale cinematografiche.
Come ci sono due categorie di persone che vanno al teatro.
Io preferisco i teatri classici, ad esempio. Quelli con la pianta a campana, i palchetti scrostati, i grandi affreschi sul soffitto della sala. Lampadari. Le due isole in platea.
Ad altri invece piacciono più i teatri moderni, con al massimo una galleria, e con le file sfalsate e in pendenza, per rendere più agevole la vista.
Ci sono gli abbonamenti d’opera. E ci sono gli abbonamenti per le rappresentazioni moderne. E poi c’è la stagione dei comici televisivi.
In un libro di Venturini, che si intitola “Tutte le ragazze con una certa cultura hanno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera”, dal quale è stata tratta la Web Series “Tutte le ragazze con una certa cultura”, v’è una scena dove il protagonista, per impressionare la ragazza con la quale è uscito, la porta in una piccola sala d’essai a guardare un vecchio film di Godard. Dietro di loro, una coppia sospira “ma che dio ci conservi queste piccole sale d’essai, puoi vedere dei bellissimi capolavori con pochissimi soldi, altro che quei multisala”. La ragazza si volta e risponde (cito testualmente) “che cazzo state a di’? Che nei weekend si paga come al multisala?! Fa schifo il cinema d’essai, è una merdaaa”.
Capirete dove sto cercando di arrivare.
Sicuramente ci saranno anche due tipi di lettori. Dai quali derivano due tipi di scrittori: quelli vivi e quelli morti; intenderei gli scrittori ma è una distinzione che si potrebbe fare anche per i lettori. Lettori morti (viventi) che si aggrappano ai libri e li sgranano e li fagocitano seguendo un istintivo e atavico appetito venuto su dalle viscere, una fame da zanni che pantagruelicamente chiede polpa e sugo, pagine e azione, stufate, imporchettate, brasate, rosolate nell’effetto wow, per una lettura golosa, poco nutriente, molto grassa. E allora lo scrittore, se vivo, che fa? Imburra e farcisce come c’avesse per le mani un’anitra spennata! A pugni su per il…
Se morto? fa l’Essai.
Essai che viene dal latino antico “exagium”, ovvero Saggio.
Latino antico dal quale deriva anche “panem et circenses”, ovvero, parafrasando come odierebbe che facessi la mia professoressa di Latino del liceo “cibo e spettacolo”.
Vi reputo intelligenti, quindi avete ben capito dove voglio arrivare. Ma seguitemi ancora un attimo, vi va?
Siamo nel 1963. Si manifestano le intenzioni e le filosofie letterario-editoriali del “Gruppo ’63, per una letteratura narrativa nuova, che rappresentasse la nuova società urbana dell’uomo novecentesco, che fosse strutturalmente complessa e che tenesse nell’oscurità e nel giogo il nocciuolo della storia. Che sostituisse insomma l’esistenzialismo con un sano strutturalismo semantico e sintattico. Tra i firmatari: UMBERTO ECO.
Diciassette anni dopo, Umberto Eco, rinnegherà se stesso, e tradirà i suoi ideali giovanili. Frutto di quel tradimento sarà quel corposo giallo storico, affrancato da ogni vena sperimentalista, da ogni vezzo eccentrico, affogato nel manzonianesimo, intitolato “Il nome della Rosa”.
Che mi è piaciuto, sia chiaro.
Certo.
Certo che mi è piaciuto.
Ma da quello sono (ri)partiti una serie di scrittori e romanzieri e storici e cattedratici (soprattutto americani) che si sono spesi anima e corpo in ricerche e contro ricerche, scartabelli e glosse, appunti e ricordi, memoriali, registri e via discorrendo, per imbastire al meglio un vestito storico, preciso fin nell’ultimo punto che tien ferma la gala al polsino, da calare sopra il soggetto che c’era venuto in mente di scrivere, e che mai potevano far interpretare a uno come Sipowicz, che non va più di moda.
Il lavoro che ha fatto uno scrittore tipo Ken Follet, per dire. O uno tipo Dan Brown con un meccanismo di intrigo alla riscoperta.
E dunque arriviamo a G.L. Barone. (Finalmente dite? Eggià, ma abbiate pietà di me, pensate che io ragiono così su ogni cosa.)
Questa storia è ambientata nella Venezia del diciottesimo secolo, potrei dire che è ben documentata da un punto di vista filologico – si, mi fido, descrive pure molti particolari – non ha una trama plausibile, ma uno direbbe, chi se ne frega, perché l’importante è che sia scandita da un ritmo serrato a schiaffo. Questo, poi questo, vi sarete chiesti come mi sono trovato in questa situazione! Flashback! Digressione storica. Trama principale. Dama nera. Aneddoto. Flashback. Ricominciamo a seguire il filo del discorso, mentre tutto s’intriga e s’infittisce, e il nostro Eliardo de Broglie sembra catapultato in un episodio di Tin Tin da quanto scappa dagli inquisitori e dagli astuti e spietati mercanti ottomani, ritmo concitato, digressione, ritmo ancor più concitato, SPANNUNG, soluzione, conclusione con gancio per il seguito.
Questo è esattamente il banchetto pantagruelico che uno scrittore vivo DEVE fare per continuare ad essere tale
E pure a leggere, con un certo snobismo che purtroppo appesta il mio gusto, il tutto fa un po’ l’effetto di quelle ricostruzioni storiche messe a compendio video dei documentari sulla Rai. (Sarà che mi sono lasciato traviare anche dall’orribile copertina, e qui bacchettata sulle nocche a NCE). Non di posticcio, perché in alcuni particolari, soprattutto descrittivi è anche abbastanza curato, ma regala il sentimento di una rappresentazione a basso budget, per la quale non si avevano molto soldi e ci si è dovuti arrangiare, e i costumi son quel che sono, la luce è quella che è, i dialoghi, vivaddio, li scriviamo un poco all’antica, un poco alla forma d’una arguzia tipica veneziana aristocratica, con quella reticenza dell’etichetta che tira stoccate solo di fioretto – ma qui ad ogni stoccata par che si sottolinei il colpo a segno con un boo-ya! – e via discorrendo insomma.
Per capirci…
Avete mai visto Merlino su Italia 1?
O “il Segreto” su canale 5?
A me ha dato la sensazione di qualche cosa con quel tipo di colore, quel tipo di recitazione, quel tipo di comparto audiovisivo sceneggiato. E pure quelli fanno milioni di ascolti. E pure sono seguitissimi. Gli attori sono invitati dalla Toffanin a parlare di quanto amino il loro lavoro e di quanto amore riscontrino in chi li segue. E moltissimi li seguono.
Ebbene, se voi non li avete mai seguiti, siete come me seduti in una piccola sala d’essai, a fumare gitans, tutti perduti nella nebbia del nostro intellettualismo da quattro soldi.
“Ah, che Dio ci conservi intatti questi bellissimi libri del gruppo ’63…”
Approfondimento
Come dice “il corriere della sera”,
“Nel filone di Dan Brown si può iscrivere un fenomeno del selfpublishing italiano pescato da Newton Compton: G. L. Barone”
Molti complimenti a lui per essersi dannato anima e corpo per arrivare a questo risultato, lo dico senza ironia alcuna. Ma questo romanzo, nelle sue caratteristiche – che io, ma solo io, trovo grossolane – è un perfetto prodotto di svago per chi non chiede niente altro che “mangiare e divertimento”.
A voi piace?
Vi basta?
È questo il tipo di romanzo che d’ora in avanti vogliamo chiedere alle case editrici?
Penso siano queste domande che OGGI dobbiamo cominciare a farci. E alle quali è meglio rispondere molto in fretta.
Luca Viti