Autore: H.P. Lovecraft
Pubblicato da Garzanti - Ottobre 2023
Pagine: 96 - Genere: Horror
Formato disponibile: Audiolibro, Brossura, Copertina Rigida, eBook
Collana: I piccoli grandi libri
ISBN: 9788811009849
ASIN: B009LDOLRA
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Anni ‘20, Stati Uniti d’America. Dunwich è una cittadina desolata e fatiscente in un New England decadente, remoto e collinoso. Ad attraversarla si incontrano per lo più soggetti silenziosi, solitari e spigolosi. Il paesaggio circostante, tuttavia, se “valutato secondo i consueti canoni estetici, è di una bellezza non comune”. Ma anche la bellezza, quando intaccata e corrosa dal malvagio, può trasformarsi e fare paura, se non orrore.
Io stesso, non più di quindici giorni fa, sulla collina dietro casa mia ho colto un discorso assolutamente chiaro da parte delle Potenze del Male: un tintinnio e un ruzzolio, un gemito, uno stridio e un sibilo come nessuna cosa su questa terra potrebbe emettere, e che non possono che provenire da quegli anfratti che solo la magia nera può rilevare e solo il Maligno può dischiudere.
A Dunwich, in una fattoria ai piedi della impervia collina da cui giungono ad intervalli regolari i rumori più sinistri, vive una famiglia diversa e rinnegata. Sui Whateley si vociferano storie oscure, di stregoneria. La famiglia appare non del tutto umana agli occhi dei compaesani. Questi stanno alla larga, mischiando ed alternando giudizio morale e timore scaramantico. Non sono poi troppo lontani i tempi in cui le storie di streghe e culti satanici avevano solida presa sulla ragione delle persone meno istruite. Perché ciò che è innaturale inquieta, e la paura porta al rifiuto.
Il vecchio Whateley è il nonno mezzo pazzo a cui gli scansafatiche della bottega di Osborn, giù in paese, attribuiscono fama da stregone. È proprietario di una enorme collezione di libri tanto polverosi quanto misteriosi. Lavinia è la figlia stramba e solitaria. Soggetta all’influenza oscura del padre, passa le giornate a fare quel che le donne di quelle zone non farebbero mai: tentare di leggere i libri del padre e vagare per i boschi temporaleschi sulla collina di Sentinel Hill. Ed infine Wilbur, figlio di Lavinia, la cui nascita – da padre ignoto – segna non solo l’inizio della storia, ma anche del lento dipanarsi di una cappa di incerto ma costante terrore. Un “nero dominio” che andrà a sovrastare per primo l’intero villaggio, ma di rimando anche l’umanità stessa, non tanto nel senso di genere umano, quanto di ciò che di umano ogni persona porta dentro di sé. Wilbur, e con lui le sue sinistre intenzioni, crescono veloci ed in maniera animalesca. Allo stesso modo il suo ruolo nella storia si trasforma rapidamente. Il ragazzo scuro e dai lineamenti caprini, apparentemente protagonista, diventa presto antagonista cupo ed inesorabile.
Gli unici personaggi positivi – quasi impossibile definirli eroi – entrano in scena solo in un secondo momento, a sottolineare la loro quasi irrilevanza, non tanto per il procedere degli eventi, ma piuttosto riguardo l’ineluttabilità della storia. Il racconto appare infatti impregnato della rassegnazione dei personaggi rispetto alla propria insignificanza, che il lettore fin dal principio forse non riconosce, ma può percepire. Il professor Armitage ed i due colleghi Rice e Morgan non entrano in gioco per via di eroismo, destino o merito, ma piuttosto per caso. È infatti Armitage, bibliotecario presso la vicina città di Akram, a negare il prestito di un oscuro libro – il Necronomicon – a Wilbur, frapponendosi alle intenzioni distruttive del ragazzo, che cerca nel volume le parole mancanti per un sortilegio letale. Il che non significa che i tre professori non possano avere un ruolo finale da risolutori, anche dai connotati positivi. L’evento porrà i tre accademici a capo del piccolo gruppo di uomini che cercherà di evitare il disastro: catastrofe che tuttavia non viene quasi mai affrontata a viso aperto, ma piuttosto con rassegnazione di fronte al giudizio di qualcosa (o qualcuno) di più alto e intoccabile. Più per istinto di sopravvivenza che per senso morale del dovere, in piena coincidenza con il cosmicismo di cui l’intera opera di Lovecraft è impregnata.
L’orrore di Dunwich è un racconto horror dal ritmo burrascoso, con tocchi di fantascienza soft, soprattutto nell’ambientazione. L’andamento – ondivago ma ascendente – della trama permette alla paura, tanto del lettore quanto di diversi personaggi, di dilatarsi lenta e inesorabile, elevando reciprocamente anche la tensione e l’incertezza, elementi cardine della prosa di Lovecraft. Viene così a galla, rimanendo tuttavia inspiegabile ed insondabile al raziocinio, un filo conduttore – inestricabile all’interno della natura umana – tra il pettegolezzo, la superstizione, lo stupore, ed il terrore provati dall’uomo per ciò che va oltre la comprensione.
Poi il germe del panico parve diffondersi tra i cacciatori. Un conto era cercare l’entità senza nome, un altro era trovarla.
Approfondimento
Tra gli aspetti più caratteristici del racconto di Lovecraft, sicuramente l’allocazione dei personaggi: quelli umani di rilievo si contano sulle dita d’una mano, per lasciare spazio a personaggi-entità del mondo naturale di importanza per nulla secondaria, fondamentali per dettare e dirigere il ritmo della storia. Abbiamo i succiacapre, volatili la cui presenza è presagio della fine. I loro versi spettrali vanno al passo con il respiro di uomini morenti, la cui anima diventa nutrimento per gli uccelli una volta lasciato il corpo. E poi le brulle colline, i dirupi scoscesi, i boschi temporaleschi, le cime coronate di rocce misteriose. Tutti gli elementi della natura, adornati da una tetra prosa, assumono un umore vago ed alienante, che attanaglia. Quasi dinamicamente sublime, nel senso più kantiano del termine, seppur privo di quella presa di coscienza proattiva tipica del filosofo tedesco. Anche il clima ed il meteo seguono l’impeto della trama. I cieli e le atmosfere, ed i rombi dei loro tuoni, intervallati dalle scroscianti battute di pioggia, simulano il respiro di una mostruosità che sovrasta tutto il circostante.
Strettamente collegata alla centralità della natura, nel senso più maligno del termine, è poi la sollecitazione dell’esperienza sensoriale del lettore, in allineamento con lo spirito puramente horror della storia.
Per primo, L’orrore di Dunwich è un racconto uditivo, e quindi in parte anche cinematografico. Un racconto dove gli ululati sono bassi e tremendi, e si intervallano a pause “orribilmente significative“. È così che il silenzio e l’attesa finiscono per fare più paura di un rumore sinistro o terrificante. Proprio come al cinema.
È quasi sbagliato definirli suoni, dal momento che il loro timbro spettrale, estremamente basso, toccava oscure sedi di coscienza e terrore molto più sottili dell’orecchio.
L’orrore di Dunwich è poi una storia olfattiva, dove anche la vista – o meglio, la sua mancanza – gioca un ruolo importante. Una storia che odora di miscugli stregoneschi. Entità invisibili avanzano come masse mollicce e puzzolenti, a passi brevi ma pesanti, descritte da una prosa viscosa, che lascia uno strascico di sé stessa. La vista (interiore) di un’entità invisibile provoca negli abitanti del luogo svenimenti privi di perdita di conoscenza. Si sviene, ma non si vacilla o cade fisicamente. Come se a perdere conoscenza fosse unicamente l’anima. A significare come l’assenza di qualcosa, più che la sua presenza, processata da un’immaginazione timorata dell’insondabile, incuta paura. Si ha paura di quello che non c’è e non si vede, non tanto perché incute timore ma quanto perché potrebbe arrivare. In senso più profondo, il racconto di Lovecraft ci ricorda l’impatto delle cose che non ci sono su quelli che esistono, dell’inesistenza sull’esistenza.
Degna di una breve riflessione è infine la filosofia di fondo del racconto, il cosmicismo, architrave di tutta la produzione artistica di Lovecraft. Quel perenne stato di immobilismo morale prodotto dalla consapevolezza di non poter nulla di fronte all’universo, indifferente alle cause umane. Il racconto si crogiola in un quasi-pessimismo cosmico che il lettore assocerà ad una specie di evoluzione – o meglio, una variante, anche se probabilmente involontaria – del pensiero leopardiano. Come una nebbia, la vaghezza, l’incertezza e la fatalità, stati esistenziali dei personaggi del racconto, si espandono ed avvolgono anche le sensazioni del lettore.
Ma nonostante tutto, l’horror seduce. E riflettendo sul senso intrinseco dei racconti dell’orrore, e sull’impatto di Lovecraft su così tanti altri prodotti artistici dopo di lui, non si può fare a meno di ripensare alle parole di Alfred Hitchcock sul perché le persone pagano per essere spaventate: parafrasando, non ne ha idea, ma è così che si guadagna da vivere. E se neanche il maestro del brivido ha una risposta, rimane il mistero, e forse è proprio questo che ci attrae.
L’orrore di Dunwich è un racconto non facile, tanto da leggere, considerata una prosa folta, descrittiva ed estetica, quanto da interpretare, visto il substrato filosofico su cui si poggia, ma non per questo indegno di un’ammirazione quasi timorosa. O dovremmo forse chiamarla paura?
Matteo Quartieri