Autore: Gary Shteyngart
Pubblicato da Guanda - Settembre 2014
Pagine: 388 - Genere: Biografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Narratori della Fenice
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L’autore si racconta con estrema dolcezza, pungente ironia yiddish e profonda analisi in un memoir dedicato ai suoi genitori: il dramma dello sradicamento, il significato dell’appartenenza, il razzismo, ma anche la rivincita e la conquista della sua identità di scrittore tra risate e lacrime.
Nel 1979 Igor (Gary Shteyngart) emigra in America con Mama e Papa grazie all’accordo che Jimmy Carter raggiunge con l’URSS: “La Russia ottiene i cereali di cui ha bisogno per andare avanti; l’America ottiene gli ebrei di cui ha bisogno per funzionare: tutto sommato, un eccellente accordo commerciale.”
Igor ha solo sette anni, soffre d’asma e non parla l’inglese. I genitori, ingegnere lui e insegnante di musica lei, sempre in procinto di chiedere il razvod (divorzio in russo), nutrono per il suo futuro ansiose speranze di successo coniando per lui appellativi non certo incoraggianti; il peggiore è senz’altro quello che dà il titolo al memoir: Piccolo Fallimento.
Igor, una volta arrivato in America, diventa Gary “in modo che prendessi un paio di legnate in meno”, ma i soprannomi continuano a susseguirsi, quasi a porre l’accento sulle fasi della confusa ricerca di se stesso e soprattutto come se fosse sempre necessaria una definizione: Moccioso, Fetido Orso Russo, Gary Gnu Terzo o Scary Gary.
Per gli altri è importante, ma per Gary l’obiettivo è il contrario: non essere distinto dai suoi coetanei, ma essere accettato da loro, non essere etichettato come russo, o ebreo, ma un ragazzo…americano, magari! Mentre in famiglia è fortissimo il desiderio di essere considerato e amato senza un merito particolare, ma profondamente e incondizionatamente, come lo amava la nonna Polja: un’ossessione che si riflette anche nelle sue storie d’amore.
Mi chiamavano Piccolo Fallimento chiude la serie autobiografica delle opere di Shteyngart: come se avesse voluto chiudere il cerchio, l’autore si denuda e si libera del suo passato per iniziare un nuovo capitolo. In tutti i sensi perché sta scrivendo un thriller e ha giurato che non ci sarà nemmeno un russo ebreo newyorkese tra i protagonisti!
E per fortuna, aggiungo io! Non fraintendetemi, non voglio dire che il romanzo non mi sia piaciuto: lo stile è gradevole e fresco, anche se a volte troppo asciutto e quando cerca di essere criptico, risulta incomprensibile. Adoro l’ironia yiddish, ma quando è ostentata diventa pesante e quando viene usata per sdrammatizzare in maniera sistematica, fa perdere il senso del dramma che è alla base. È una storia interessante, un bell’esempio di letteratura di immigrazione, anche se l’autore stesso la odia lo dobbiamo collocare proprio in quello scaffale.
Il problema è che manca la scintilla che in genere mi fa innamorare delle pagine che leggo, anzi mi ha lasciata totalmente indifferente, nonostante il tema mi sia molto caro.
Sarà che reputo Shteyngart troppo giovane e ancora troppo poco conosciuto (in Italia sicuramente) per scrivere un’autobiografia, forse pecca di presunzione e questo memoir puzza di autocelebrazione.
Approfondimento
La famiglia è la vera protagonista dell’autobiografia Mi chiamavano Piccolo Fallimento, anche perché, come dice l’autore citando Czelaw Milosz “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, la famiglia è finita”. E aggiunge “se non è finita la famiglia è finito lo scrittore”.
Una famiglia di immigrati che lascia in Russia parenti e amici, ma anche il cuore: nonostante la vita sia migliore in America, continuano a rifugiarsi nella loro lingua madre. Portarsi dietro i mobili romeni e il pianoforte Ottobre Rosso non basta per sentirsi a casa. La lingua sembra un ostacolo insormontabile, il denaro e gli status symbol che può comprare una chimera, ma sono in America e, anche se considerano la guida TV come la versione americana della letteratura e vivono costantemente nella paura che capiterà qualcosa di terribile, sanno di essere in salvo.
Gary adulto tornerà in Russia ogni anno per poter fare il punto e scrivere le sue memorie, fino a quando non andrà anche con i genitori ormai ultrasessantenni, pensando di riportarli a casa, ma saranno loro a condurre lui… come turisti americani in vacanza!
Uno degli effetti dello sradicamento è proprio questo: non sentirsi mai a casa neanche quando torni in patria. Chiudersi dentro se stessi e nella propria lingua madre è un tentativo di proteggersi dallo smarrimento e, mentre i genitori indugiano, Gary si mette in gioco imparando l’inglese fino a perdere l’accento e a far fatica a ricordare alcune parole russe. Il suo rifugio è la scrittura, ciò che più gli dà gioia, anche quando è “tormentata e piena di odio, di quell’odio che rende il fatto di scrivere non soltanto possibile ma necessario.” Ed è proprio nella scrittura che Shteyngart troverà se stesso, tra una seduta psicanalitica e l’altra!