
Autore: Carlo Calenda
Pubblicato da Feltrinelli - Ottobre 2018
Pagine: 224 - Genere: Politica
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Serie bianca

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Carlo Calenda è stato ministro dello sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni. In questo libro, al netto della sua esperienza politica, ragiona d'attualità, internazionale e italiana, alla ricerca delle cause economiche, sociali e politiche della crisi dell'Occidente e, più in generale, della democrazia, ipotizzandone un possibile antidoto.

Il mondo occidentale è in crisi.
Stiamo assistendo a un revanscismo diffuso e bracalone in difesa e in restaurazione dei nostri valori portanti, risoluto e col dito puntato a indicare l’ombra del nemico, enorme, incombente, di fatto intangibile, ma minacciosamente intenzionato a disfare la nostra libertà d’essere come siamo.
Viviamo un oggi stravolto, un oggi preoccupato, zuppo di tragedia – l’indignazione è il vessillo di questi nostri tempi, l’allarme il suono principe, e dalla proliferazione delle reti sociali abbiamo imparato a parlarne con una sola grande voce: quella dell’inconsistenza.
Il mondo occidentale è in crisi.
Stiamo assistendo a un revanscismo diffuso e bracalone in difesa e in restaurazione dei nostri valori portanti, risoluto e col dito puntato a indicare l’ombra del nemico, enorme, incombente, di fatto intangibile, ma minacciosamente intenzionato a disfare la nostra libertà d’essere come siamo.
Viviamo un oggi stravolto, un oggi preoccupato, zuppo di tragedia – l’indignazione è il vessillo di questi nostri tempi, l’allarme il suono principe, e dalla proliferazione delle reti sociali abbiamo imparato a parlarne con una sola grande voce: quella dell’inconsistenza.
Quali sono però questi valori in crisi? E quali sono le cause di questo sfilacciamento di resistenza e resilienza agli attacchi esterni? Tutti oggi paiono averci una risposta, tutti paiono pure sapertela spiegare e argomentare, e tutti con la severa ma alambiccante pazienza d’un saggio gravemente colpito al cuore, ferito ma non del tutto vinto al pessimismo cosmico.
A far come Fusaro, si potrebbe dargli dell'”antitesi”, una risposta eguale e contraria alla “tesi” (nel senso di oggetto palpabile) che potremmo definire come “Sign of the times” . La Sintesi di questi nostri tempi nostri e dei loro tempi loro, come ogni volta, è “we gotta get away from here”, ma poi si sta fermi. Go(do)t it?.
Ma andiamo nello specifico del volume. Calenda sembra pur un brav’uomo, anche se fin in fondo un po’ tutti stiam qui ad aspettare ci chiarisca il significato della stramba e un po’ ambigua posizione politica che ha assunto nell’ultimo anno da nuovo tesserato del PD; posizione equiparabile a quella degli anziani che osservano i cantieri e ne fanno, con chi passa, una critica sconfortante. Che c’abbia torto non si può dire, ma anche al martellatore più paziente ci tirerebbe fuori un “e allora fai te!” – ma lui dice che non è interessato. Un passo indietro. Dal duemila e tredici fin al duemila e diciotto è stato vice e poi ministro allo sviluppo economico, lettano, renziano e gentiloniano; di riserva, rottamatore e tecnico, intenzionato intraprendente, costretto restauratore – per non dir quasi uno che giri per casa a buttar padelle di qua e di là dove piove dentro per arginar le perdite – è finito per conquistare poca roba, sempre coll’ansia – povero lui – dell’industria italiana in recessione e smobilitazione, che però, ci tiene a precisarci nel libro, se buone o cattive, vedremo poi (bravo, il beneficio del dubbio è sintomo di maturità).
C’è pure da dargli atto d’una cosa, che d’autobiografico c’è il giusto, non è un’auto-agiografia sulle difficoltà superate in ministero, anzi, c’è della modestia; si potrebbe dire che c’abbia messo l’esperienza sua come a far da zoccolo di credibilità dal quale partire e al quale appoggiare tutta la sua disamina sul dove siamo arrivati, come, e dove andremo a finire. A suo avviso, e a ragione (ma anche qua, come si farebbe a dargli torto?), lo stimma dei giorni nostri è la globalizzazione. Dedica l’intera prima parte a ricercarne le origini, quella centrale a dove ci ha portato e dove ci porterà, e l’ultima a come migliorarla e renderla efficace attraverso una “democrazia liberale”, in Italia e nel mondo, per salvare i valori dell’Occidente.
Io credo che i valori dell’Occidente siano patrimonio dell’umanità e rappresentino uno dei più importanti traguardi della storia, ma non certo quello definitivo.
Sta qui il punto, il perno intorno al quale ruota l’intero corpo del romanzo: “i valori Occidentali”. Ma quali sono? Da dove vengono? Calenda non fa parte di quelle correnti revansciste che ho citato in apertura, anzi, fermamente se ne distacca essendo un fautore del mondo globalizzato, e dunque, d’altra parte, non si può nemmeno assumere fra le file dei reazionari; questo perchè al netto del suo pensiero, i valori occidentali ai quali si rifà, sono, (esagero) di natura “economica” prima che morale. Sono la dottrina Monroe. L’ispirazione del piano Marshall. Sono il patto atlantico. Sono l’ecumenico americanismo di Bretton Woods pre-dissoluzione sovietica. C’avrà pure ragione lui, (e ce l’ha, sia chiaro) ma quando, al termine della sua macrodisamina economico-politica del primo capitolo, elenca dieci successi e dieci insuccessi della globalizzazione, ecco che, a parer mio ovviamente, ci si trova di fronte un buon quindici caratteristiche di neo neo colonialismo (delle quali dieci, però eran quelle buone). Ci si trova di fronte il manifesto di politica estera della Cina di Xi Jinping.
Non entro in merito, perchè poi da qua si andrebbe a inquinare la questione di pareri personali, che un recensore serio dovrebbe tenersi in saccoccia propria, e decidersi a star concentrato sopra altre cose – anche se poi in realtà io le avevo pur redatte punto a punto, ma mi son reso conto che Calenda, ci fossimo confrontati, sarebbe stato molto più preparato di me, facendomi fare una mezza figuraccia, dunque, salvando la faccia, evito. Perchè è da ammettere, molte peregrinazioni sue sono oltre che fatte bene, ben argomentate (al termine d’ogni capitolo, ben segnata, ci sta una corposa bibliografia dalla quale trarre ottimi spunti e saper che non si è inventato nulla), e il più delle volte, il ragionamento, approda a conclusioni largamente condivisibili. E però un poco sciape. Si leggono rassegnati e un po’ amareggiati, con quella cantilenante partecipazione da tribuna politica (o d’osteria) che ti fa sentir parte d’un diffuso malcontento e che trova in quelle somme tirate un chiaro problema evidenziato, che però sapevi già, perchè riconosciuto, conclamato.
Fa dir “Bravo Calenda. Hai centrato il punto!”
Siamo all’orizzonte selvaggio.
E dopo?
E ben dall’orizzonte selvaggio in là, le proiezioni son tutte un po’ sfocate. Dici, sarà la lontananza che uno non ci può veder tanto bene, e dunque… Ma le parole perdono un poco di peso. Tutta la disanima, ad esempio, sulla tecnologia spersonalizzante, o sulla pericolosità dei nazionalismi e sulla paura per società che possono scivolare nell’autarchia, e poi alla disaffezione dei giovani dalla politica, e poi dalla crisi dell’industria pesante, e dell’analfabetismo funzionale e le sue conseguenze…
Ribadiamo, tutte condivisibili, tutte oltremodo magistralmente argomentate, ma non aggiungono molto alle preoccupazioni d’un laureando in lettere. O d’un intellettuale di fronte alla classe politica populista e demagogica.
È l’indignazione accurata ma un po’ soffice di Calenda che smorza i toni, che vivadio, è una manna un testo e una preparazione simili, dato che di là c’hai i vaffanculo in piazza, ma la reazione vera dove sta?
Ecco, data la sua recente adesione al PD, possiamo dire che questo libro è lo specchio della sinistra di oggi. È lo specchio di un partito smagnetizzato. Perchè se sui problemi ci siamo (su quelli grandi, vah), sui valori e sulle soluzioni, io personalmene o vedo nebbia, o non son d’accordo. Sarà la mia deriva radicale, ma la moderatezza lievemente conservatrice che tiene m’ha sempre un poco disturbato.
Ricostruire uno Stato forte e assertivo nelle capacità di incidere sulla realtà, impegnato direttamente nella gestione delle trasformazioni, nel potenziamento dell’uomo oltre che della tecnica, che assuma una prospettiva “sociale” anziché esclusivamente economica, rappresenta lo strumento cardine di una “democrazia progressista.
In parole non fa mezza piega.
All’identità immobile dei nazionalisti va opposta un’idea di “patriottismo inclusivo,” capace di coniugare il bisogno di punti di riferimento culturali e identitari alla natura evolutiva di una società liberale.
“Patriottismo inclusivo” cit. Yascha Mounk, politico socialdemocratico tedesco. Si ok. Ma cosa nel concreto? Cos’è un riferimento culturale e identitario in una società globalizzata?! C’è da salvare la democrazia? Bisogna dare più potere al Welfare per rimettere al centro il cittadino anzichè la finanza? Però quello deve capire che ha anche doveri e non solo diritti? O toglierlo? Deregolamentazione? Austerità? Più cultura (ancora? e che è questa cultura?! E soprattutto QUALE?)
Perchè di base, a furia di parlar di cultura si fa pur bella figura, ma non si capisce l’idea, o forse la si è persa là in mezzo, e non si trova più.
Progressisti in politica interna, realisti in politica estera. Ma prima di tutto dobbiamo smettere di pensare di esorcizzare la paura con le parole, o peggio con le citazioni fatte a sproposito. Basterebbe ricordare le frasi di Roosevelt successive alla famosa e sempre evocata “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa.
Ecco Calenda. Hai detto bene. “dobbiamo smettere di pensare di esorcizzare la paura con le parole”.
Approfondimento
Brevissimo.
Articolo/inchiesta del TIMES. Due donne, stesso lavoro ma epoche diverse. Entrambe donne delle pulizie, l’una (anni settanta del novecento) alla kodak, l’altra (anni zero del nuovo millennio) alla Apple. Con le dovute proporzioni, potere d’acquisto del salario pressochè identico. La prima era assunta dalla ditta, ha avuto la possibilità di studiare all’università, di avere un piano pensionistico, di avere ferie e malattie. La seconda, assunta da una ditta esterna, non fa vacanza da anni e lavora a collaborazione occasionale.
La prima ora dirige una piccola impresa.
La seconda è ancora donna delle pulizie.
Grazie alla globalizzazione siamo progrediti.
Ma l’American Dream era più probabile quarant’anni fa.
Ecco, fino a che la sinistra non riuscirà a rispondere alla domanda “perchè accade questo?”, allora vincerà Trump.
Luca Viti
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