Autore: Iacopo Barison
Pubblicato da Tunué - Maggio 2014
Pagine: 176 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Brossura
Collana: Romanzi
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Nello squallore dei sobborghi metropolitani è ambientata la storia dei due adolescenti in cerca di una vita migliore, che migliore non è: senza risorse economiche, senza documenti, senza identità riconosciuta, senza sostegno, senza amici, senza cibo, tra musicisti balordi, sporcizia ovunque, insetti, animali morti, tuguri, impasticcamenti vari, furti in farmacie si dipana la loro squallida storia di sopravvivenza emarginata.
Stalin è un ragazzo dai folti baffi (di qui il nome), di diciotto anni, vive in un luogo non precisato ai margini del sociale, affetto da turbe psichiatriche e non riesce a contenere gli impulsi aggressivi. La madre è figura tenera, ma di fatto assente, il padre non ce l’ha, vive co il patrigno, che odia. L’unico suo punto di riferimento è l’amica Bianca, una poetessa cieca verso la quale nutre più di un amore platonico. Un giorno, in preda ad un eccesso d’ira, Stalin colpisce violentemente il patrigno. Certo di averlo ucciso, fugge con Bianca verso una non definita capitale e cerca di costruirsi un’identità, tra stenti e difficoltà di ogni genere, ambiente malfamati e puzzolenti, conigli morti e un generale degrado. Stalin riprende il mondo su cui si affaccia con una videocamera che registra la malattia da cui si sente circondato, mentre Bianca rimane irretita dalla sua creatività su cui si proietta con tutta la sua sconfinata dolcezza e sensibilità…
Di fatto Stalin e Bianca sono due hippie sessantottini disintegrati socialmente, delineati con riferimenti espliciti al mondo del cinema e alla narrativa specie di McCarty. Mi sembra infatti di poter azzardare una fonte di ispirazione nel romanzo La strada di cui si riprendono le caratteristiche della metropoli in cui è ambientata la vicenda che vede come protagonista esseri marginali della società contemporanea, colta in media res:
Vorrei aggiungere che lo stadio è completamente vuoto. Gli orizzonti scompaiono, i riflettori puntati sul campo si spengono all’improvviso. Siamo giovani e soli, avvolti nel buio molecolare del tardo pomeriggio: La nostra quotidianità ha una forma rettangolare, è innevata, è di per sé non ha alcun senso.
Questa mancanza di un senso in questa vita è ciò che trascina i protagonisti di Stalin + Bianca alla ventura, figli di quel nichilismo strisciante che caratterizza i nostri tempi: per chi vivere e per cosa vista che non si è mai felici? A questa latitudine di desolazione in cui si sopravvive non c’è respiro né speranza in un domani migliore, ma un generale annichilimento dell’anima e dei sensi che si perderebbero nel girovagare in periferie sconosciute se non ci fosse quella telecamera a fare da guida spirituale. Perché il sogno di Stalin è quello di guardare film, comprimerli nella testa, vincere la palma d’ora al festival di Cannes, oppure il Gran Premio della Giuria, alzarsi in piedi e ricevere gli applausi… Non si è mai verificato, ma potrebbe, intanto riprende col la telecamera il volto bellissimo di Bianca: il suo modo di guardarlo è così diverso da quello del compagno della madre. Lui era un raver e a vent’anni respirava ketamina e socchiudeva gli occhi, improvvisava metafore per poi sdraiarsi e addormentarsi nel fango. Stalin è un perditempo malfamato, ma ricorda che agli occhi della madre, dolce e assente, è un supereroe; un fondo un po’ di verità c’è, è un antieroe che titanicamente difende la sua mancanza di posizione nel mondo e rivendica la sua esistenza insensata e degradata, con una certa pervicacia che gli deriva dall’indole e dalla creatività filmica.
Approfondimento
L’elemento che più mi pare di pregio di Stalin + Bianca, che sta facendo parlare molto di sé, sia da ricondurre allo stile, asciutto, essenziale, scenografico, che riprende la realtà degradata come con una macchina da presa, gettando un ponte con quel cinema di cui Barison è massimo esperto. Stalin è tutt’uno con la sua telecamera e con Bianca con cui avviene una sorta di addizione: non si tratta di due protagonisti, ma di un’unica persona che trova il suo completamento nell’elemento femminile, realizzando inconsapevolmente il ritorno all’Uno del mito platonico del Fedro. Il testo sta riscuotendo enorme successo di critica per il modo pungente, scarno, tagliente, secco ed asciutto con cui mette il dito nella piaga dell’attuale gioventù che vive realmente ai margini del sociale, senza speranza in un futuro lavorativo e quindi famigliare.