
Autore: Joyce Carol Oates
Pubblicato da Bompiani - 2013
Pagine: 608 - Genere: Autobiografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Narratori stranieri Bompiani

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Nel febbraio del 2008 la scrittrice americana Joyce Carol Oates accompagna il marito Ray in ospedale per una polmonite. Dopo una settimana di notevoli miglioramenti, improvvisamente Ray muore a causa di un'infezione contratta in ospedale. Ripercorriamo con la neo-vedova la tragedia nei giorni, settimane, mesi che seguono la scomparsa del marito, durante i quali le si apre davanti un abisso di sofferenza che non potrà mai essere completamente colmato.

Nel giro di una settimana Joyce si ritrova ad essere una vedova: inaspettatamente muore il compagno con cui per quasi cinquant’anni ha condiviso ogni giorno della sua vita. Un forte senso di colpa traspare dalle sue parole: per averlo lasciato da solo a morire in mezzo ad estranei e per il fatto stesso di averlo portato in quell’ospedale, dove un’infezione polmonare l’ha ucciso. Fin da subito la neo-vedova viene assalita dalle incombenze che rappresentano una sorta di corollario della morte: il ritiro degli effetti personali del marito dall’ospedale, gli accordi con l’impresa di pompe funebri per la cremazione (la morte non è priva di costi!) e tutta una serie di pratiche amministrative e legali che deve affrontare in quanto “esecutrice testamentaria” delle proprietà del defunto. In tutte queste azioni Joyce dimostra “buon senso”, si comporta in modo “ragionevole”; dopo qualche giorno riprende gli impegni accademici, si mantiene attiva, perché stare a casa fa troppo male: solo nel “nido” (il letto coniugale, nel quale si rifugia nelle notti insonni, disseminato di libri, bozze, manoscritti, prove di stampa ecc.) si sente al sicuro, mentre al di fuori di esso è circondata dalle “stanze fantasma”, dal vuoto e dal silenzio che aleggiano nella casa.
Il mondo esterno va avanti, incurante, ormai remoto e grottesco per la Vedova, che si muove in esso come fosse uno zombie, persa nel suo dolore, ma determinata a far vedere agli altri che “va tutto bene”. L’inverno finisce e grazie all’inevitabile giungere della primavera Joyce si impone di riprendere in mano la cura del giardino di Ray: sarà questo il primo passo verso la risalita, anche se di soffrire non smetterà mai. Ed è giusto così, dopotutto “Ray se lo merita”. Il soggetto di Storia di una vedova mi ha incuriosito fin da subito, in quanto tratta di una condizione diffusa (tutti conoscono almeno una vedova), ma raramente affrontata di per se stessa; in questo frangente è impressionante la sincerità al limite dello spietato dell’autrice, particolarmente evidente nelle considerazioni a posteriori sui propri comportamenti, pensieri e azioni.
Storia di una vedova è intriso delle paure dell’autrice: la paura di diventare dipendente dai sonniferi e dagli antidepressivi, di stare a casa da sola, di crollare di fronte a degli estranei, di essere riconosciuta, di non farcela… Pensa spesso al suicidio, un pensiero per lei confortante: ha la sicurezza di poterlo attuare in qualsiasi momento, grazie alla scorta di pillole accumulate negli anni, che conserva in bell’ordine su un ripiano. Oltre a tutta l’angoscia e la sofferenza che Joyce prova, dalla lettura traspare la sua gratitudine nei confronti degli amici, ma ciò che ho apprezzato maggiormente è l’immenso coraggio dell’imporre a se stessa di ricordare, descrivere e quindi rivivere un periodo così drammatico, dall’inizio alla non-fine; in molte occasioni arriva a immaginare quello che avrebbe detto o fatto Ray nel vederla in una determinata situazione!
Nonostante Storia di una vedova sia una lettura interessante per chi come me apprezzi l’autoanalisi e creda nel valore catartico della scrittura, non si possono trascurare alcune note dolenti, in particolare la lunghezza del libro, aggravata da una ripetitività ingiustificata e da un nutrito corpo di mail e biglietti di condoglianze (davvero troppi!) che fungono da intramezzo fra alcuni capitoli.
Serena Scodeller