Autore: Francesco Guccini
Pubblicato da Giunti - Settembre 2019
Pagine: 288 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: eBook, Rilegato
Collana: Scrittori Giunti
ISBN: 9788809885523
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Francesco Guccini torna a Pàvana, suo paese di origine, ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio, evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all'opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all'infinito della fantasia. Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto; la malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato.
Siamo a Pavana, nel meraviglioso appenino tosco-emiliano, “già un poco Romagna in odor di Toscana” in quell’ora del pomeriggio, quando la luce si fa fioca, non è ancora notte ma non è più giorno, e una voce affabula il lettore, lo porta indietro nel tempo, in un mondo che non c’è più, tra viali silenziosi, tra sentieri non più percorsi, ma che come per magia si animano, rivivono le persone, i luoghi, i mestieri, gli odori. Guccini canta e racconta la sua terra, la sua Pavana, e lo fa condividendo le sue memorie più intime con il lettore, aprendo le porte delle case, i cassetti degli armadi e le dispense riempite per l’inverno, che lì, in montagna, può essere lungo e rigido; così come le estati possono essere chiare e cristalline, piene di voci, di risate e di amori. Con precisione certosina, Guccini ci racconta un mondo che non c’è più, un universo semplice ed operoso, fatto di mani che lavorano la terra, spaccano legna e impastano il pane, di cucine economiche pulite a specchio per il pranzo della domenica, di passi con scarpe pensanti e consumate che scricchiolano sotto le foglie secche; un mondo pieno di piccole strade brecciate risuonanti di passi, di muri pieni d’edera, di fiumi dove una volta si faceva il bagno davvero, di comignoli fumanti che profumavano l’aria gelida di novembre di fumo e castagne.
Il vento del tempo ha spazzato tutto, era gente viva e qui ci viveva e camminava per quelle strade, quei sentieri, portando pesi, ora vietati per legge, portando attrezzi agricoli (un pennato, un’accetta, una zappa, un picco), andando a moroso, tornando da cena, da un ballo, da un matrimonio e avventure ribalde.
Tralummescuro è una ballata lenta e malinconica, è un canto d’amore alla terra, alla civiltà contadina, un inno alle nostre radici, un invito, in quest’epoca di frenesia e di poca memoria, a non dimenticare da dove veniamo. È un romanzo infarcito di memoria, di storie, di povertà e di ricchezza allo stesso tempo, ma è soprattutto radici, appartenenza, il sentirsi legati ad una terra, ad un luogo a cui tornare, dove siamo ancora bambini, dove sentiamo ancora le voci del “vilegianti”, anche se ormai non c’è più nessuno, si sono spenti suoni e voci. È il ricordo della ninna nanna che ci cullava da piccoli e di cui, da grandi, sentiamo solo l’eco e rammentiamo solo qualche strofa.
Approfondimento
Francesco Guccini è un affabulatore, plasma parole ed emozioni e compie il miracolo di far rinascere ciò che è sparito da tempo, riproduce la bellezza di quel passato semplice ed operoso e lo restituisce vivo e tangibile al lettore; intrecciando dialetto ed italiano, afferma con potenza la sua appartenenza ad un luogo e ad un tempo che da passato si fa presente e vivo, da lontano si fa bellezza. Ed è proprio l’utilizzo del dialetto che rafforza e suggella questo legame con la terra, lo rende profondo e viscerale, perché solo il dialetto è capace di nominare le cose e di dar loro appartenenza.
Il nostro era un dialetto povero, di gente povera, però era usato quotidianamente per comunicare notizie, emozioni, dichiarazioni d’amore, odio, lite. Lo si parlava in famiglia, mangiando, dividendo i compiti che ciascuno aveva nella giornata. Il dialetto ti fasciava, ti avvolgeva, nominava le cose che ben conoscevi, la tua famiglia, i tuoi amici, i tuoi animali, le tue piante, con nomi diversi e paralleli a quelli della lingua italiana.
Romina Celani