Autore: Massimo Gramellini
Pubblicato da Longanesi - 2012
Pagine: 209 - Genere: Autobiografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: La Gaja scienza
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In Fai bei sogni Massimo ha solo otto anni quando perde la madre per un “brutto male”; questa è la spiegazione ufficiale che gli viene data. Ma “perché esiste un male bello?” egli si chiede, rintanato sotto le lenzuola. Nella sua mente s’incunea tormentoso il dolore: la mamma è andata via perché non le vuole più bene, e ripercorre con la memoria i momenti felici, fino al punto in cui gli occhi della madre erano diventati vuoti come l’occhio del Ciclope che lo terrorizzava in una trasmissione televisiva. Poi la notte di capodanno gli aveva rimboccato le coperte raccomandandogli “Fai bei sogni, piccolino”. Lui si era stizzito, non si sentiva più piccolo; invece lo era e pieno di dolore, al punto che gli adulti gli nascondono la verità sulla morte della madre. Solo dopo quaranta anni la conoscerà grazie ad una lettera fin ad allora conservata da Madrina, la migliore amica della madre. Solo la verità gli consentirà di crescere sul dolore, staccandosene un po’ attraverso il perdono.
La mattina di capodanno Massimo viene svegliato da un grande trambusto: il padre è fuori di sé agghiacciato dal dolore, due uomini lo tengono per le braccia e lo portano via; il bambino viene trasferito nella casa dei vicini: la mamma è uscita per delle commissioni, tornerà. Poi un’altra versione: la mamma è salita il cielo e non tornerà mai più, ma lo proteggerà dall’alto come un angelo. L’esistenza felice di Massimo si frantuma: comincia il tormento che lo consumerà anche in età adulta, cerca di riappropriarsi col ricordo della memoria felice, ma dentro cresce la rabbia, la bestia che cova rancore: la mamma con i suoi profumati capelli ha tradito il patto di amore eterno. Da allora non può vedere le bare dei morti e non riesce a costruire rapporti sani di vita, perché gli mancano le radici, l’unico forte aggancio alla vita, al suo DNA.
“Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere più amati”: frase terribilmente vera, come tutto il racconto autobiografico di Gramellini in Fai bei sogni, che infatti si racconta in prima persona. Nasce il senso di colpa: la mamma è andata via perché lui non ha saputo trattenerla.
Non ha mamme di riserva: nonna Emma, romagnola emigrata a Torino, donna apparentemente fredda e tirannica, se ne era andata straziata di dolore dopo la morte di suo marito, che sembrava il suo zerbino, ma cui era terribilmente legata per gli strani equilibri delle coppie. Nonna Emma vedeva di malocchio il matrimonio dei genitori di Massimo, ma dopo il trasferimento di questi a casa di lei, le cose un po’ si aggiustarono, dopo la nascita del bimbo. Almeno David Copperfield aveva una zia; invece Massimo ha quattro zii materni, Nemmeno Nonna Giulia può occuparsi di lui: troppe disgrazie e troppi figli! Insomma nessuna può colmare quel vuoto profondo, non la Maestra né le mamme dei compagni si scuola, né la tata Mita, orribile a vedersi e senza cuore, perché mai amata da nessuno. Non gli resta che il papà, maschio poco sensibile, vissuto nel mito di uomini forti: nonna Emma e Napoleone. Dipendente di un ufficio statale, è duro, incapace di accarezzare, uomo pratico, per il quale la dimensione affettiva è un optional. L’unico canale di comunicazione è il Toro, poi la morte del calciatore Meroni lo mette di fronte alla realtà: la morte esiste. Da quando poi la mamma ha raggiunto Gigi Meroni e il Grande Torino, Massimo non si sente più sicuro di nulla. Poi la fine delle elementari è tragica: anche la maestra lo ha abbandonato e Belfagor, il fantasma del Louvre, lo divora sempre più, e lo accompagna per tutta la vita fino alla scoperta inattesa della verità per conto di Madrina. Ciò gli restituirà la vera dimensione del padre e riuscirà a perdonare: dal perdono la nascita della linfa vitale.
Fai bei sogni è un grande immersione nell’animo umana, senza nessuna accademica velleità psicoanalitica, scende nell’animo di un bambino che deve affrontare il dolore più grande: la morte della madre. E la disamina scorre fluida e naturale per tutto il romanzo, facendo intravedere, pur nel buio profondo dell’angoscia popolata da Belfagor, il fantasma della sua mente dolorante, la luce della rinascita, l’uscita dalla caverna, che resta sempre presente come “una maglia nella rete che stringe” Massimo Gramellini, che non si dà per vinto, ma cerca ancoraggi di ogni sorta per sopravvivere al dolore che lo accompagna fino all’età adulta, al disvelamento della verità nascosta. Gli adulti pensano di proteggere i bambini mentendo, invece non fanno altro che alimentare il fantasma della disperazione che s’incunea mortale proprio lì dove non si capisce.
Ma l’età più adulta fa comprendere che qualche menzogna è naturale e forse la verità viene a sanare le ferite a momento opportuno restituendo uno spazio di vita e libertà all’animo infranto dal dolore, ricollocando gli eventi e le persone nella giusta luce e posizione. Finalmente quel bambino potrà vedere volare in alto il palloncino che tiene per mano nella copertina, tassellando il mosaico della sua esistenza ricongiungendo il dolore antico con la consapevolezza di un adulto, grazie anche a una figura femminile che lo supporta in questo doloroso processo rieducazione emotiva.
L’ambiente di Fai bei sogni è quello di Torino, città nella quale Gramellini è nato, da genitori romagnoli; si sente un certo distacco emotivo della Signora Città, e forse quel freddo interiore che avverte Massimo a Torino, in cui le mamme dei compagni si piegano su di lui come l’orfanello di cui aver compassione senza integrarlo nelle loro famiglie, non sarebbe uguale una città del Sud dove, per mia diretta conoscenza, le famiglie si prodigano molto di più per il bene della gente meno fortunata. Tanto è vero che in questa città, che non viene descritta, ma fa da fondale della storia, ancora vige la forte distinzione tra “terroni” e “polentoni” secondo una dicotomia pregiudiziale, per cui si dice del compagno di scuola di Massimo: ” Rosolino era arrivato a Torino dalla Sicilia in tempo per farsi catturare dal Teschio” (cioè, il professore). Suo padre, a sentir lui, fabbricava miliardi. Ma i compagni più biondi dicevano che puzzava. E questo, oltre al suo accento del Sud, era bastato a iscriverlo nel club dei reietti. Dall’unione delle nostre vergogne nacque un’amicizia destinata a rompersi ogni sera sul pulmino del doposcuola che ci riportava a casa”. Come dire, che l’ambiente torinese con la sua proverbiale freddezza non aiuta certo a elaborare il dolore e che le famiglie non sono capaci di farsi carico del disagio altrui e, infatti, anche tra reietti ognuno torna solo nella sua casa.
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