Autore: Robert Peroni
Pubblicato da Mondadori - Ottobre 2016
Pagine: 190 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Copertina Rigida
Collana: Saggi
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L'imminente scatenarsi del piterak, il vento che con le sue raffiche violente è in grado di spazzare via interi villaggi, costringe Robert Peroni, esploratore altoatesino stabilitosi da quasi quarant'anni in Groenlandia, a rifugiarsi insieme a collaboratori e turisti nella sua "Casa Rossa". Nelle lunghe ore passate all'interno, in attesa che la furia degli elementi si plachi, prendono corpo storie e ricordi del popolo inuit, testimonianze concrete di come l'incontro con la cultura occidentale abbia drammaticamente e irreversibilmente trasformato la loro.
I turisti mi chiedono sempre se preferivo prima o adesso. Me lo domandano quasi ogni giorno, ed è la terza o quarta domanda che mi fanno tutti. Non lo so. Quella era una vita semplice, non c’era granché da pensare o decidere.
Tasiilaq, Groenlandia orientale: l’esploratore altoatesino Robert Peroni, trapiantato da ormai quasi quarant’anni in questo lembo di terra circondato dai ghiacci, si muove disinvolto ma con una certa fretta. L’esperienza e l’istinto gli dicono di far presto: deve approntare tutto il necessario per mettere in sicurezza la Casa Rossa – l’albergo che ha costruito e grazie al quale offre lavoro a un gruppo di inuit e ospitalità ai viaggiatori stranieri – e prepararsi a rimanere chiuso dentro per almeno 48 ore, insieme a collaboratori e turisti. Sul fiordo di Tasiilaq, infatti, sta per abbattersi una grande tempesta, il piterak, il “vento degli uomini” o “quello che attacca”, come dicono i groenlandesi. Un evento naturale spettacolare ma violento, spesso incontrastabile e catastrofico: gli abitanti indigeni dicono addirittura che siano i demoni che si risvegliano a scatenare la furia degli elementi. È dunque più saggio evitare di opporvisi e attendere che la tempesta passi.
A fare compagnia a Robert nella Casa Rossa si raduna un piccolo e variegato gruppo di persone: ci sono Thomas, un turista tedesco, Louise, una ragazza danese in dolce attesa e due viaggiatrici austriache; ma ci sono soprattutto gli inuit, che ormai Robert considera come membri di una propria particolare famiglia e che, per rendere più leggera e interessante l’attesa, si mettono a raccontare le loro storie. Ecco allora Viggo, il più fido collaboratore di Robert, che racconta della sua giovinezza, la vita semplice ma vera delle famiglie inuit, scandita dalle battute di caccia e i giochi ricavati dalle ossa degli animali catturati, prima del contatto coi danesi, la scoperta – fascinosa ma straniante – di un altro modo di vivere, l’incapacità di difendere la propria identità e la tragica esperienza di un piterak di tanti anni prima, capace di disintegrare un intero villaggio. Ecco il musicista Anda, che attraverso le sue malinconiche canzoni rievoca la storia del suo popolo e i contatti che storicamente si erano susseguiti coi bianchi e che avevano finito per lasciare ineliminabili scorie nella cultura e nella società indigena, spiegando anche la sua personalissima esperienza in terra danese durante il fermento degli anni ‘70 del Novecento. Ecco Gideon, scultore e sciamano, raccontare della perdita del proprio fratello maggiore, del lento disgregarsi della sua famiglia, sconvolta da questa tragedia e del suo profondo e solitario percorso alla ricerca di un proprio posto nel mondo, attraverso un’arte povera ma gravida di significati. Ecco il commosso ricordo di Gudrun, ultima “sciamana”, insieme guida e amica di un Robert ancora non pienamente integrato nel mondo groenlandese, ma quasi docilmente “allevato” attraverso i miti e le leggende a un modo di credere in forze sovrannaturali potenti e arcane ma al tempo stesso avvicinabili e comprensibili.
In quei giorni di tempesta è un bellissimo libro di viaggio, sebbene racconti una situazione di forzata stasi, un contesto in balia degli elementi che, se ci trovassimo in qualsiasi altro luogo del pianeta, suggerirebbe claustrofobia, angoscia, costrizione. Gli squarci narrativi che, attraverso le voci degli inuit, guidano il lettore lungo le pagine, riescono quasi magicamente a dispiegare orizzonti, offrire visuali, dipingere prospetti.
La ragione intrinseca è lo sguardo limpido, privo di qualsiasi presunzione, con cui la prosa piana ma amabile di Robert Peroni descrive il suo amore per la Groenlandia e per i suoi abitanti. Non c’è la pretesa un po’ ingenua, comune a tanti resoconti di questo genere, di elevare a paradigma di vita un’esperienza personale estrema, lontana dalle logiche (comunque per molti versi assurde) della società in cui siamo immersi. Si scorge anzi un grande senso di umiltà, una genuina urgenza di testimoniare il dramma sociale e culturale che ha contraddistinto la storia di un popolo, attraverso storie che, presto o tardi, sembrano destinate a scomparire, spazzate via dal vento della globalizzazione e del disinteresse. Rifugiarsi nella Casa Rossa diventa quindi metafora di un atto di condivisione e di salvaguardia, del non far sì che la neve ricopra le tracce lasciate dagli uomini in quel particolare angolo di mondo attraverso le loro stesse vite.
Approfondimento
Il protagonista di In quei giorni di tempesta, aldilà di ogni considerazione, è il piterak. L’energia distruttiva ma al contempo vitale di questo vento artico è ciò che fa pulsare ogni pagina del testo. È giusto affidarsi alla stessa voce dell’autore – richiamando una sua recente intervista a un noto quotidiano italiano – per comprendere ancora meglio ciò che sta alla base di questa valutazione: “Nella vita di ognuno, come nei passaggi delle civiltà, ci sono i giorni di tempesta. All’improvviso il vento si alza, si porta via qualcosa e crea lo spazio per altro. È la tempesta che decide: un popolo si estingue, un’era si chiude, una teoria politica fallisce. Sul ghiaccio ho imparato che per andare avanti, l’errore da non commettere è provare a dominare la tempesta, illudersi di essere più forti degli snodi cruciali che misteriosamente indirizzano il mondo“.
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