Autore: Benito Ruggiero
Pubblicato da Positanonews - 2013
Pagine: 190 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Brossura
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L’invenzione emotiva di Benito Ruggiero inizia dalla fine o, meglio, dalla “quasi fine” della sua voce narrante. In fuga dalle luci e dai rumori della festa in paese, il protagonista vaga senza meta, sicuro di non avere più nulla da vivere e neppure da sperare. Scalzo, perché le scarpe le ha dimenticate chissà dove, cammina sulla sabbia finché non sembra comparire dal nulla, il bar, là dove non l’aveva visto. E’ indeciso: entrare e comportarsi come un qualunque uomo da bar, sedersi al bancone e fingere di conoscere i nomi di quei liquori sconosciuti o continuare per la propria strada a rincorrere la fine? E’ incerto, ma entra. Nel bar non c’è nessuno tranne un uomo dal viso sapiente, un pescatore-barista, che rimette in ordine il locale. Non c’è dubbio, è lui: il Saggio, colui che fino a questo momento è stato solo nella sua testa e che non ha mai visto in viso. Il Saggio versa il whisky ma nessuno dei due lo berrà: preferiranno uscire, camminare l’uno dietro l’altro su una strada costeggiata da ulivi e arrivare lassù, alla casa del Saggio. Il protagonista non ha nulla da perdere, il Saggio neppure, e stanno tornando a casa. Il verbo tornare è quello più adatto poiché, nonostante la voce narrante non abbia mai messo piede in casa, ne riconosce le pareti, l’odore di marsiglia delle lenzuola, le finestre. Com’è possibile riconoscere ciò che non si è mai conosciuto per davvero? Il mattino dopo, certo di ritrovare il Saggio nella sua casa, il protagonista vaga tra le stanze e, inaspettatamente, la casa si rivela vuota ai suoi occhi. Ha inizio, così, la ricerca del Saggio attraverso la conoscenza del Pazzo e del Bambino, tra i vagoni di treni presi per errore e biciclette sdraiate sull’erba. Un viaggio che è una scoperta di sé, del potere delle parole, di tutti gli inizi che aspettano dietro la parola “fine”.
Di questo romanzo – che romanzo non è – mi hanno colpito moltissimi aspetti e spero di non dimenticarne nessuno. Non è un romanzo, dicevo, nonostante sia travestito da tale: è teatro. Non a caso, l’autore ha tratto uno spettacolo teatrale proprio da queste pagine. Teatro dell’assurdo, in particolare, tra Samuel Beckett e Tom Stoppard, con dialoghi serrati che contengono in sé non soltanto le parole ma anche il perché delle parole, la ricerca linguistica, l’interesse per il segreto profondo del comunicare umano. Al lettore non viene presentata una “storia” intesa come narrazione ma piuttosto una storia che è viaggio, esplorazione del proprio io, treno lanciato a rincorrere nuovi inizi. In alcuni passi, mi è parso di riconoscere gli slanci del Faulkner di L’urlo e il furore. Quando il protagonista, nell’ipotizzare una serata al bar, immagina che potrebbe sentirsi a disagio e desiderare d’andar via, pensa: “Lascerei che il posto mi accomodasse fuori”. Niente di più faulkneriano di un oggetto fisico o astratto che compie l’azione sull’uomo, oggetto contro soggetto apparente.
Prescindendo dallo stile – particolarissimo e scorrevole – il romanzo si distingue soprattutto per la profondità prospettica dei personaggi che altro non sono, in realtà, se non le diverse sfaccettature di un solo uomo. Non a caso, i personaggi non hanno nome ma vengono chiamati dal loro modo di essere: il Saggio, il Pazzo, il Bambino. Sono dei fuoritempo nel tempo, hanno vissuto guerre delle quali il protagonista non ha memoria, hanno attraversato una storia che trascende la Storia stessa. E’ come se ciascuno di loro fosse stato l’altro in un altro tempo, come se il Bambino fosse diventato Pazzo prima di essere Saggio o, meglio, come se non esistesse nessuna precedenza temporale e i tre personaggi fossero sempre esistiti tutti e tre contemporaneamente. E, nel mezzo, il protagonista. Lui che voleva finire perché non riusciva a ricordare che dopo la fine c’è sempre qualcos’altro. Lui che non voleva comprare un nuovo paio di scarpe (perché non voleva più camminare). Splendida, a questo proposito, la riflessione che l’autore compie sulle stagioni, su come non sia l’inverno la fine ma piuttosto l’autunno. L’inverno, in sé per sé, è già l’inizio di un inizio.
Le pagine più delicate e poetiche sono, a mio parere, quelle in cui appare lei. Lei è il fruscio di una lunga gonna verde, gli occhi a scomparsa tra i capelli e il taccuino che ha raccolto il giorno in cui lui l’ha perso. Lei non c’è mai stata eppure c’è, è il tratto di penna sulla carta che domani tornerà bianca, e appare e scompare senza mai restare per davvero. Il Bambino l’aspetta e vorrebbe fosse una sirena ma “sono sicuro che per lui sarà comunque la sirena; sia che avrà gambe o pinne: come sarà l’amerà”. Il valore dell’attesa, delle collane di conchiglie create per lei, per quando passerà. E in tutto questo, cos’è che esiste davvero? Esistono il Saggio, il Bambino, la donna dalla lunga gonna verde? O esistono soltanto il protagonista, lui che aveva perso la fede nella vita, e l’invenzione emotiva? Perché “le cose acerbe hanno colori freddi, e pungono. Le cose mature hanno colori caldi e avvolgono. Credo che tu stia semplicemente cambiando colore”. Ed è quello che accade al protagonista: cambiare colore. Cambiar pelle. Comprare un nuovo paio di scarpe proprio quando si pensava di non dover più camminare, e riconquistare la strada verso il mare.
Benito Ruggiero, nato nel ’34 tra la Penisola Amalfitana e Sorrentina, ha viaggiato molto e, in ogni viaggio, ha portato con sé la passione per gli studi letterari. Maestro e contemporaneamente allievo di se stesso, ha intrapreso il percorso di scrittura che ancora oggi continua e che l’ha condotto alla realizzazione di un’opera – L’invenzione emotiva – profondamente originale e interessante. Ritengo questo libro un ottimo lavoro di ricerca interiore, stilistica, emozionale. Merita di essere letto con attenzione, compreso, interiorizzato. Ognuno di noi è Saggio, Pazzo, Bambino, in una sorta di pagana trinità della coscienza. Ognuno di noi è chiamato a compiere il suo viaggio e a scoprire, proprio come il protagonista di questo romanzo, tutte le parole che credevamo di aver perso e che invece sono lì, in attesa, un attimo dopo la parola “fine”.
Giovedì 12 Dicembre 2013 alle 16:30 siete tutti inviati al Teatro Tasso di Sorrento, la compagnia teatrale “I murattori” porta in scena il romanzo, per saperne di piú aderisci all´evento su Facebook) e sabato 14 si replica a Positano, Museo del Viaggio. Ingresso libero.