Tornare indietro nel tempo è sempre una sfida, non perché non esistano testimonianze o documentazioni che ci aiutino a farlo, piuttosto per la ragione che è implicito dover ricordare e metabolizzare chi siamo (cioè cosa ci ha fatto diventare ciò che siamo) e da dove veniamo, cose che lasciano i segni, dappertutto. L’impegno morale di ricordare, anche a beneficio di chi non c’era e necessita di esempi (negativi/positivi), è una responsabilità di chi ha ancora il cuore pieno di passato.
Questi giorni ho chiacchierato con Roberto Moroni, autore di vari romanzi, e di “1969” un Ebook Feltrinelli Zoom (acquistabile qui) che è un’anteprima del suo prossimo romanzo.
Dicevo una sfida, colta da Moroni che romanza l’anima di quei movimentati anni successivi al sessantotto. Una storia sulla libertà, quella rubata dai giovani alla società del potere, libertà fragile, pericolosa, autodistruttiva. Un concetto relativo, da sempre.”1969” è diretto, in questo assomiglia alla scrittura di alcuni autori americani, non si perde in estetismi o virtuosismi, arriva maledettamente. Ho pensato di farvi conoscere il libro attraverso le parole dell’autore stesso.
Ecco la mia chiacchierata con Roberto Moroni.
Caro Roberto, sono felice di ospitarla su Leggere a Colori e la ringrazio per aver trovato il tempo di rispondere alle mie curiosità.
Lei è nato nel 68, quell’anno e anche quelli successivi sono marchiati nella Storia come una spaccatura sociale, ma anche come aggregazione nata per la contestazione. Con “1969” ha deciso di raccontarci L’Altamont Free Concert organizzato dai Rolling Stones, evento simbolo della fine delle illusioni di quella generazione. È stata un’esigenza legata strettamente al fatto che lei è nato proprio in quel periodo?
Sì e no.
Premessa: trovo che il ’68 c’entri relativamente con Altamont. Il concerto degli Stones è semmai il capitolo finale, diciamo l’epifania a tinte foschissime di ciò che rimaneva del grande sogno degli anni Sessanta, che ci si era illusi di celebrare definitivamente qualche mese prima con Woodstock (payoff: “Cinque giorni di pace amore e musica”). Lo disse lo stesso Lennon in God, una canzone dell’anno successivo: the dream is over.
I cascami tossici del ’68 risiedono altrove: nella lotta armata che ne seguì, nell’annegamento nell’oceano dell’eroina, nella durissima presa di coscienza che no, la Rivoluzione non si sarebbe fatta e che no, il mondo non si poteva cambiare, comunque non con la protesta di piazza.
Ciò avvenne dopo Altamont, e cioè tra il 1970 e il 1976, con un successivo colpo d’ala dei fratelli minori nel ’77 (il punk in Inghilterra, il DAMS in Italia, le radio libere, gli indiani metropolitani, il movimentismo Dada, ecc), anche quello destinato a morire male. Tutto, come noto, finisce comunque nel 1978, con la sconfitta delle organizzazioni extraparlamentari e soprattutto delle BR, con l’avvento del riflusso, la fuga nel privato e la ricerca del “posto sicuro”. Perché nel frattempo, al ragazzino che abbiamo concepito illuminandoci d’incenso e guardando il mandala, e a cui abbiamo imposto il nostro bravo nome indiano, a quel ragazzino bisogna pur dargli da mangiare, e magari comprargli la televisione per fargli vedere i cartoni di Jeeg robot d’acciaio. Ci sono anche esempi più confortanti, per carità, ma in gran parte successe così.
Per quanto riguarda me personalmente, è ovvio che nel ’68 fossi più interessato a pappette e sonagli. Anche se: nato a Milano in zona Brera, da ragazzino non potevo fare a meno di vedere i residuati bellici – tanto culturali che politici e umani – che costellavano il quartiere in cui vivevo. Per cui manifesti, murales, case occupate, librerie del Movimento, il Macondo, gli stessi fricchettoni che intrecciavano cestini agli angoli delle strade e si sparavan giù immensi cannoni senza curarsi del borghese (che poi a Brera non era scioccato più di tanto). Molte belle ragazze, anche, sempre piuttosto discinte.
La sua è una ricostruzione romanzata, in un certo qual modo conserva il piglio essenziale e accurato del reportage mescolandolo a un flusso narrativo libero. Torna indietro all’origine delle cose, qualche volta si tuffa avanti nel “futuro”, e lo fa utilizzando ottimamente le tecniche di analessi e prolessi. La mia opinione è che lei abbia dato molta importanza ai dettagli, costruendo su quelli, a ritroso, ciò che la Storia già ci ha detto. Come mai ha deciso questo approccio?
Perché Altamont è un evento storico peculiare proprio dal punto di vista extramusicale (suonarono tutti malissimo, tra l’altro). Altamont non è “il concerto di Altamont” e neanche “il concerto in cui ammazzarono un tizio”. Altamont è solo significato – anzi: è solo simbolo. È il sigillo a un baule che si chiude, una cosa che finisce, anche in modo abbastanza brutale, e non tornerà mai più. Come tale, Altamont è stata oggetto di innumerevoli saggi, convegni e discussioni, il più efficace dei quali è certamente Gimme Shelter, il film che i fratelli Maysles realizzarono sul campo e che, quanto a potenza narrativa, non ha paragoni con le altre trattazioni. È l’unico film su un gruppo musicale che non parla del gruppo musicale.
Nel mio scritto, Altamont ha una molteplice funzione: è una quinta ideale in cui far agire e incontrare i personaggi del romanzo senza che s’incontrino realmente, è l’introduzione ideale al romanzo stesso – ricordo che 1969 è solo il primo capitolo di un lunghissimo romanzo, Musica ribelle – è la possibilità di un’unità di tempo e luogo che nelle mille storie, luoghi e personaggi del seguito stenterà ad affiorare.
Il concerto degli Stones di Altamont, citandola, “fu un imprevisto dall’inizio alla fine”. Non poteva essere altrimenti. Nel suo libro la critica verso il gruppo rock, e in particolare verso Jagger, non è di certo velata. Semmai pungente. Vuole spiegarci i motivi?
Gli Stones misero in piedi Altamont in modo perlomeno dilettantesco. I Beatles si erano appena sciolti, loro volevano prendersi tutta la torta senza avere un decimo della capacità organizzativa necessaria in quel momento. Li avevano invitati a Woodstock, loro si erano sentiti troppo grandi per partecipare a un evento collettivo in cui sarebbero stati messi sullo stesso piano degli Who o di Hendrix. Così decisero di farsela da soli, la loro Woodstock. Avrebbero dovuto rivolgersi a un Bill Graham, invece la hybris di una nuova etichetta discografica e le ottime vendite dell’ultimo disco li portarono a pensare di essere anche grandi manager. Furono superficiali e irresponsabili. Come giudichereste la scelta di affidare il servizio d’ordine di un evento gigantesco agli Hell’s Angels? È come se chiedessi a uno dell’Isis di far da preside alla scuola dove va mio figlio. Come minimo, di mio figlio non me ne importerebbe granché (e sarei in ogni caso un discreto imbecille).
Quanto a Jagger, era di certo il periodo in cui il resto del gruppo pendeva dalle sue labbra (no pun intended!).
Lei scrive, e penso sia una verità inconfutabile, che “una grande band ha il potere di modificare l’anima”. Durante un concerto, certo. Se stiamo parlando di quei giorni ancora oggi, se lei l’ha fatto con un libro, evidentemente i Rolling Stones hanno cambiato qualcosa di più. Qual è stato secondo lei il ruolo di questa band e della sua musica nel contesto di quegli anni?
Non gigantesco, credo. Gli Stones nascono come eccellente gruppo blues. Nel corso dei ’60, grazie (?) ad Andrew Loog Oldham, diventano pop, ma è evidente che in questo reparto non possono competere con i Beatles. La loro importanza cresce con la fine di questi ultimi, loro sì veri artefici di qualcosa di epocale. Tant’è che, dal ’69 in avanti, gli Stones ritornano sostanzialmente blues. Fanno tre-quattro dischi magnifici, ma a quel punto è solo questione di presenza sul mercato. Sono le persone giuste al posto giusto. Ruoli non credo ne abbiano, e non credo nemmeno abbiano cambiato niente – da un punto di vista culturale, diciamo. Hanno osservato bene, e si sono piegati con stile (e grandissimi riff di chitarra) al gusto dell’epoca. Un po’ come qui in Italia Alberto Sordi – che a me ricorda tantissimo Jagger: un uomo vuoto come un tronco cavo che sa osservare e riprodurre molto bene secondo il gusto corrente.
Cosa rappresenta il rock per Moroni?
Trovo che la più grande rockstar dei nostri tempi sia Martha Argerich, e con questo credo di aver risposto alla domanda.
Il male ci obbliga alla coscienza, anche se molto spesso in ritardo. Riesce a farci fare i conti con noi stessi. Nonostante ci sia sempre un prezzo da pagare può fare anche del bene. Condivide questo pensiero? La morte di Meredith Hunter, la follia del concerto di Altamont: a cosa sono serviti?
I confini della nostra idea di male sono talmente cambiati rispetto ad allora, e pervadono noi occidentali in modo così inimmaginabile fino a quindici anni fa, che trovo improprio, oltre che impossibile, ragionare in questi termini. Quanto a Meredith Hunter, credo che la sua morte non sia servita a nulla, se non a far vendere dischi, film, giornali, libri (sì, anche il mio).
La sua penna descrive con facilità fatti complessi, ancora oggi oscuri. Vi riesce per due motivi, a mio parere. È bravo a raccontare ed è bravo a non farsi risucchiare dall’oscuro evitando di approfondire (o inventare) troppo fino a far inciampare il racconto. Mi tolga una curiosità, prima di ringraziarla per aver chiacchierato con me, 1969 è sempre stato così, nella sua idea, oppure ha lavorato per renderlo così essenziale e tagliente?
Intanto la ringrazio per il suo apprezzamento.
1969 è sempre stato il primo lungo capitolo di un parimenti lungo romanzo, niente di più. È abbastanza evidentemente ispirato al primo capitolo di Underworld di Don De Lillo.
Una volta arrivata la proposta di trasformarlo in eBook “stand-alone” ho fatto qualche modifica, ma è sostanzialmente rimasto lo stesso.
Ci diceva che Musica ribelle, il suo prossimo libro, porterà Melvin, Leo, Joy, gli stessi personaggi di queste vicende in un lungo viaggio, musicale e non, in diverse città del mondo. Storie intersecate, fotografie immutabili del vortice (incontrollabile?) del cambiamento. È indubbiamente un lavoro importante per lei, in me ha già suscitato interesse. Incuriosiamo anche i lettori: ce lo descriva con un aggettivo.
Folle, almeno per me.
Prima di tutto perché non ero affatto sicuro di arrivare a finire di scriverlo, anzi. Poi perché cercare di mettere sul mercato un romanzo di mille pagine in questo paese e in questo momento storico è un’impresa che solo un pazzo può tentare. Infine perché quando si lavora a un romanzo concettualmente, strutturalmente e linguisticamente così ambizioso è impossibile che non sia già un fallimento. O meglio: qualcosa l’ho certamente imbroccato, e magari appieno, ma a scapito di altro che è altrettanto sicuramente lontano da quel che mi proponevo quando, tredici anni fa, iniziavo a scrivere. Luoghi, epoche, stili, temi, personaggi… troppa roba da tenere insieme per una persona sola!
Meno male che – come scoprirà chi avrà voglia e ventura di leggere il romanzo – il narratore di Musica Ribelle non sono io.
All’inizio parlavo di libertà, che è un grande contenitore in cui si possono mettere tante cose dentro, che ci vada o meno, ideali, musica, politica, credi religiosi, filosofia, stili di vita (etc, etc.). Una di queste è la ribellione. Come ha cambiato i ragazzi di quaranta anni fa? Quali sono i modi in cui ha trovato sfogo? Che segni ha lasciato? E poi è servita? Ho l’impressione che il suo Musica ribelle, proprio partendo dalla musica, ci fornirà delle risposte. Belle da leggere.
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