Quando stai per trovarti davanti un autore come David Mitchell ti aspetti, oltre ad un certo aplomb tipicamente inglese, un personaggio che sta un po’ sulle sue nel raccontare cosa sta dietro alle sue opere. D’altra parte si sta parlando di uno scrittore che con ben tre romanzi è stato finalista al Booker Pritze e che, con un capolavoro come Cloud Atlas, non solo è riuscito a venderne i diritti per farne un film, ma ne ha fatto ricavare un vero e proprio blockbuster riuscendo a non stravolgere – come troppo spesso accade – la sontuosità del libro.
Beh, l’incontro con David Mitchell non poteva essere più lontano da ogni pregiudizio che ci si aspettava solo leggendone la sua biografia. Il dialogo dell’autore con Tullio Avoledo e con il pubblico è sembrata più una piacevole e rilassata chiacchierata al bar che non un incontro letterario. Una chiacchierata al bar molto filosofica, ma nella quale non sono mancati siparietti che, grazie anche alla bravura di Avoledo, hanno fatto emergere tutta la genuinità e simpatia dell’autore inglese. Non ci si stupisce così che la (prevedibile) lunga coda per il firma copie a fine incontro sia diventata chilometrica, forse una delle più lunghe di tutto il Festival.
Dopo aver rotto il ghiaccio chiacchierando con il devoto Avoledo sul suo nuovo lavoro, il dialogo con Mitchell diventa un’analisi della sua magistrale, unica capacità di intrecciare trame, epoche ed universi in un caleidoscopico stratificarsi di livelli narrati senza mai avere cali di ritmo e di stile. La sensazione è quella di essere in un “non luogo” nel quale ci si sposta saltando tra gli ingranaggi di un numero infinito di orologi le cui lancette ruotano non solo avanti e indietro, ma anche su altri assi, in un’infinita girandola di possibilità. Non a caso è proprio il tempo il tema principe della chiacchierata con l’autore. Mitchell ha piena consapevolezza del tempo, ma in tutto il suo candore, ammette di bloccarsi nel tentativo di darne una definizione: “Sono come S. Agostino” – afferma l’autore – “Capisco cosa è il tempo, ma solo fino a quando qualcuno non mi chiede cosa è”. Perché il tempo è tutto e niente. Il tempo è ovunque ed è multidimensionale. Il tempo è ogni metafora che si può utilizzare per descriverlo. Un fiume che scorre, una freccia, un Uroboro che si morde la coda. Ad una delle domande più difficili del pubblico Mitchell ammette che, se è vero che il tempo è un elemento essenziale dell’universo, afferma che ci sia una qualche componente della persona umana che è a-temporale. Non sa dire quale parte di noi lo sia – anima, cuore, mente… – ma è certo che c’è una parte dell’uomo che supera le leggi del tempo e attinge all’infinito.
Un altro elemento che spicca della scrittura di David Mitchell, strettamente connesso al tempo, è la musica. “Una delle cose per le quali vale la pena vivere”, a detta dello stesso autore, un ingrediente fondamentale dei suoi libri – indimenticabile il “mistico” componimento titolato “Il Sestetto dell’Atlante delle nuvole” presente nella trasposizione cinematografica di Cloud Altlas – ma, soprattutto, presente nella sua narrazione. Perché la musicalità è un tratto caratteristico dello stile di Mitchell, nella sua abilità di alternare ritmi incalzanti con ritmi più lievi, permettendo alle storie di fluire con una naturalezza che è più affine ad una sinfonia che alle pagine di un libro. A meno che quelle pagine non siano scritte da David Mitchell.
https://www.instagram.com/accounts/login/?next=/p/BKX5fsIBAuS/
Affascinante e profonda, ma raccontata con ilarità grazie all’efficace mediazione di Avoledo, è la presentazione del Future Library Project. Il progetto, ideato da un artista scozzese, prevede di piantare una foresta di alberi fuori Oslo, in Norvegia, e, da qui fino al 2114, chiedere ogni anno a uno scrittore di consegnare un manoscritto che sarà pubblicato solo dopo il 2115, stampato con la carta ricavata da quegli stessi alberi. Anche Mitchell ha avuto il privilegio di essere chiamato a partecipare a questo progetto e ha consegnato a maggio il suo contributo, un romanzo inedito depositato in un caveau presso la Biblioteca Nazionale norvegese e che rimarrà sigillato in attesa del 2115. Si tratta di un progetto che, a detta dello stesso autore, rappresenta un attestato di fiducia nei confronti del mondo e delle generazioni future dato che, inevitabilmente, lui non potrà essere lì a godere dei frutti della sua opera. Per questo è stato in parte liberatorio, per lui, scrivere tale manoscritto, senza che questo sollievo oscuri l’impatto simbolico di un gesto che rappresenta un iniezione di speranza in questi tempi troppo spesso funesti; anche solo per il fatto che “tutto ciò significa che, ancora, nel 2115 ancora si stamperanno e si leggeranno libri”.
Infine, tra tanta filosofia e metafisica, una nota di colore. Alla domanda del pubblico su quali siano le sue letture preferite nel tempo libero, Mitchell ha simpaticamente ammesso che, accanto ai libri che legge per il suo lavoro di ricerca e a quelli che si ripromette di leggere per puro diletto, anche lui ha – come noi comuni mortali! – la sua “pila della vergogna”, ovverosia quella colonna di libri che tutti conserviamo e dove i libri che fingiamo di aver letto, pur non avendolo fatto, e che piano piano cerchiamo di far assottigliare prima di essere colti in castagna sulle nostre mancanze.