Autore: Domenico Andrea Schiuma
Pubblicato da Lettere Animate - 2015
Pagine: 259 - Genere: Narrativa Italiana
Formato disponibile: Brossura
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Nicola Mastrogiovanni ha trascorso gran parte della propria esistenza in totale abnegazione all’amore materno. Venuta a mancare la donna e ormai adulto, l’uomo intraprende un viaggio che lo condurrà verso una nuova consapevolezza di sé e del suo posto nel mondo.
“A lui sarebbe semplicemente piaciuto sentire una storia […] dei fatti, delle emozioni, delle sensazioni, della vita.”
Nicola Mastrogiovanni ha sette anni quando il padre, iracondo e polemico, abbandona lui e la madre. Fino a quel giorno il ménage familiare è stato scandito da continue liti tra i genitori. La madre tenta di proteggere il figlio dall’atteggiamento burbero e a tratti violento del marito. Ogni sera racconta al figlio una storia per allontanare dalla sua mente l’ombra cupa gettata dal padre, instaurando col figlio un rapporto esclusivo e asfissiante. Passano gli anni e la madre di Nicola muore. Solo e inesperto della vita, sebbene ormai adulto, Mastrogiovanni decide di evadere per qualche tempo dalla sua quotidianità, fatta ormai solo di lavoro e nient’altro. Approda a Bari, dove tenterà di ritrovare nella vita di tutti le storie che da sempre gli hanno fatto compagnia. Origlia, non partecipe, i discorsi di due giovani ragazzi, gli unici che, a quanto pare, serbano una storia affascinante da raccontarsi e, di riflesso, raccontargli.
Facemmo l’amore in una notte di maggio è un libro pretenzioso. Vorrebbe vestire i panni di un romanzo di formazione sui generis. Concorre (o quanto meno dovrebbe concorrere) a tale scopo l’attenzione posta sulla crescita emotiva del protagonista. Da bambino asociale, al limite della sociopatia, Nicola diventa, infatti, un adulto aperto al mondo e alla conoscenza dell’altro. Il romanzo, però, non è in grado di suscitare un sentimento di empatia nel lettore, né una parvenza di tenerezza nei confronti di un personaggio dall’emotività appena puberale, armato della quale, si confronterà per la prima volta con il sentimento dell’amore.
Approfondimento
Domenico Andrea Schiuma ha avuto il merito, se proprio occorre attribuirgliene uno, di abbozzare una storia potenzialmente accattivante nei primi undici capitoli e poi privarla di qualsiasi pregio in quelli restanti. Questo romanzo esemplifica magistralmente che non è sufficiente avere una buona idea di partenza per sviluppare una storia, se l’idea stessa non è supportata da uno stile quasi impeccabile e da un intreccio non raffazzonato. In un simile marasma letterario l’unica nota appena positiva è l’ingenuità del sentimento amoroso nutrito dal protagonista, compatibile, questo sì, con un uomo che ha saltato le tappe naturali della crescita. Puerile, ma coerente con la psicologia del Mastrogiovanni è il pensiero che gli affiora nella mente poco prima di prendere sonno:
“E poi se in quel momento avesse dovuto compiere una scelta, se in quel momento qualche misterioso demone gli si fosse presentato davanti e gli avesse chiesto:”Preferiresti poter andare direttamente a stasera per sentire Federico e Natalia o tornare indietro nel tempo per rivivere un attimo felice con tua madre?” lui, forse, avrebbe scelto la prima opzione.”
Una trepidazione simile a quella nutrita da un bambino che attende la mattina della gita al mare.
Per il resto, Facemmo l’amore in una notte di maggio rimane un libro deludente sotto molteplici aspetti. Oltre al già menzionato pessimo sviluppo dell’intreccio, non è possibile tacere lo stile approssimativo del suo autore. Per quanto sia apprezzabile il ricorso alla tecnica della Ringkomposition con lieve variatio nella parte finale, volta ad accentuare l’avvenuto cambiamento del protagonista, espressioni del tipo “andava di frettissima” rappresentano uno scempio linguistico inaccettabile sotto tutti i punti di vista e privo di attenuanti. Uno scrittore deve avere sempre rispetto per la lingua e, non ultimo, per i suoi lettori. A che serve, poi, infarcire il racconto di riferimenti dotti alla cultura classica, al taedium vitae di cui parlava Seneca, se poi oltre alla lingua italiana si massacra anche quella latina, facendo sparire un dittongo (tedium!) che almeno sopravvive nella seconda parola della locuzione (vitae)? D’accordo è un refuso. Lo avremmo certamente perdonato e omesso, se il libro si fosse riscattato almeno nel finale dalla mediocrità che lo attanaglia.
Mariangela Librizzi