
Autore: Giovanni Battista Menzani
Pubblicato da LiberAria - 2013
Pagine: 170 - Genere: Narrativa Contemporanea, Racconti
Formato disponibile: Brossura

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Una raccolta di racconti al vetriolo per fotografare la realtà contemporanea con intelligenza e uno sfondo di amarezza.

Protagonista assoluta di questa interessante raccolta di racconti L’odore della plastica bruciata è la realtà contemporanea in tutte le sue sfaccettature, fotografata da una penna schietta e affilata che incide e lascia il segno. Il libro si apre su un breve racconto dall’aria kafkiana che ha come protagonista un uomo travestito da somaro. Quest’uomo lavora sodo, ai limiti dello sfruttamento – come un somaro, appunto – in un frequentatissimo centro commerciale. Completamente nascosto agli sguardi altrui dal suo travestimento, si muove a fatica dentro la pesante struttura di metallo e suda, si sente male spesso e volentieri, accetta gli insulti degli adulti e le risatine dei bambini. In poche pagine, abbiamo il ritratto spietato di una società continuamente in corsa, sempre di fretta tra le corsie dei supermercati, con cartoni carichi di spese – perché le buste sono state abolite per questioni di sensibilità ambientale. Fa sorridere il contrasto tra la presunta “sensibilità” che ha portato la catena di supermercati ad abolire l’uso della plastica e le disumane condizioni di lavoro del “somaro” protagonista e di chi come lui. Già questo primo racconto, lucido e pregno di significato, ci dà un assaggio del personalissimo modus scribendi dell’autore. Dal parcheggio di un moderno centro commerciale ci spostiamo, quindi, nell’appartamento di un’insegnante quarantenne che è invecchiata da precaria ed è già anziana dentro le sue gonne pesanti e con quei lunghi capelli grigi. Vive di supplenza in supplenza e spesso riporta alla mente le parole di una zia acida e zitella che l’ha cresciuta insegnandole l’astio per gli uomini e per la vita. Seduta lì, in una sala affollata in cui non si respira, mi ha ricordato l’Evelyn joyciana che, imprigionata dalla sua città e dalla sua esistenza, non riesce a trovare il coraggio per abbandonare tutto e partire. Poi c’è la badante che, dopo la morte del padrone di casa, viene malamente mandata via dalla famiglia di questi e, subito dopo, una sorta di Grande fratello del precariato che vede i protagonisti del racconto Pollice verso aspettare continuamente il loro momento – il momento della celebrità – per poi lasciarselo scivolare via dalle dita nell’incapacità di affrontare la realizzazione del sogno. Tra case in procinto di crollare e restauri troppo costosi, tra madri stanche ancorate alla televisione e il malinconico ritorno al paese natio, Menzani traccia il profilo di un’inevitabile decadenza che non può che culminare nell’orrore dell’ultimo, terribile racconto.
Come ho scritto nell’incipit del mio commento, L’odore della plastica bruciata è caratterizzato da uno stile sincero che non infiocchetta nulla, bensì abbandona la realtà alla sua crudezza senza mai calcare la mano: non è necessario esagerare, infatti, ché la realtà è già terribile di suo. I personaggi che si rincorrono di racconto in racconto sono accomunati da una sartriana nausea talvolta più esplicita, talvolta nascosta; ognuno di loro sta andando da qualche parte, a partire dalla badante che deve tornare al suo paese per arrivare al “figliol prodigo” del racconto Il vitello grasso, eppure nessuno si sposta mai per davvero. I personaggi restano immobili nel loro tentativo di fuga che, per l’appunto, altro non è se non un tentativo: l’insegnante precaria di A stomaco vuoto non potrà far altro che continuare a sperare in una nuova supplenza, anno dopo anno, così come gli abitanti delle case decadenti di Real estate sanno perfettamente di dover lasciare il loro appartamento ma non si muovono: intanto, aspettano.
Mi ha colpito una coincidenza che, credo, coincidenza non sia: si tratta della presenza di elementi che tornano più volte all’interno della raccolta. Il primo consiste nell’immagine della crepa: presente sia in Crepe che in Real estate, è la rappresentazione plastica della decadenza, il suo concretizzarsi in un taglio nel muro che è precursore del crollo totale. Altro elemento è il ritorno a casa che caratterizza sia Apocalisse in 16:9 che Il vitello grasso. E sullo sfondo di ogni racconto, l’incapacità di esistere appieno, di essere ciò che davvero si desidera essere. Il somaro della prima storia vorrebbe scrollarsi di dosso quell’orribile impalcatura ma non può farlo per contratto, esattamente come il mago di Un brutto quarto d’ora. E’ una questione d’istinto: per andare avanti, per guadagnarsi da mangiare, bisogna vivere senza vivere. Sopravvivere. Accettare i compromessi di una società crepata quasi quanto i muri che affastellano i racconti: sempre in bilico, sempre pronti a crollare, con l’umidità che gocciola dalle pareti ché bisogna coprire i muri con la plastica per non nuotare sul pavimento. Infine, quasi come un effetto collaterale, l’incapacità di dire “no”. In Carta moschicida e in I fiori appassiti, i protagonisti si ritrovano coinvolti in esperienze che non li riguardano affatto solamente perché non sono in grado di rifiutare, di far valere il proprio pensiero, di imporsi. Si arriva, così, alla crudezza del racconto eponimo, l’ultimo, in cui due genitori impongono ai figli neppure adolescenti la visione di una condanna a morte, quasi in una trasposizione non-cinematografica de Il miglio verde di Stephen King. Seduti in platea, i ragazzini guardano morire i condannati l’uno dopo l’altro, sulla sedia elettrica, e l’odore che si sprigiona ricorda quello della plastica bruciata ma è odore di vita che si spegne e dà nausea, una nausea che ha poco a che vedere con l’intestino quanto piuttosto con lo stomaco morale: la coscienza.
Complessa, articolata e spietata, questa raccolta di racconti è indirizzata a chi ne è protagonista: noi, con le nostre televisioni e le periferie dai muri che crollano, la nostra spettacolarizzazione di ogni aspetto del reale e i cartoni della spesa. L’odore della plastica bruciata é una raccolta in cui ci si specchia distorti, ma solo per cercare di trovare, in quella distorsione, la lucidità e il coraggio per riconoscersi.