Dell’opera di Jackson Pollock Harold Rosemberg soleva dire: “Quello che doveva andare sulla tela non era un’immagine, ma un evento.”
E questo è a quanto ancora assistiamo a Venezia, a Palazzo dei Leoni, nella dimora di Peggy Guggenheim, sul Canal Grande, sede del suo museo, quando visitiamo la mostra “Murale. Energia resa visibile”, curata da David Anfam del Clyfford Museum di Denver.
Fino al 16 Novembre, prima cioè che Murale, il più grande dipinto dell’artista americano, parta per Berlino e poi raggiunga Malaga, per poi rientrare in sede nello Iowa, anche voi parteciperete curiosi alla visione del prodigio artistico cui il giovane Pollock diede vita, nel 1943, oggi per la prima volta in Italia.
Questo lavoro rappresentò un punto di non ritorno per Jackson: una commissione estenuante per una mecenate feconda e illuminata, Peggy, che lo aveva assunto ideale per la propria dimora newyorkese, destinata a rimescolare le carte del nodo arte vita del suo secolo.
Sei metri mozzafiato di tela proiettati verso un futuro dell’arte che non avrà simili, capaci di trascinare di peso, solo dopo quattro anni, la figurazione astratta dagli automatismi della sedentarietà formale, verso la dinamicità espressiva ed esecutiva, quasi compulsiva, delle grandi falcate di Pollock che lo vedevano irrompere sulla tela con l’integrità del proprio corpo. Dopo tanto errare Jackson era infatti giunto ad Est, passando da Wyoming, Arizona e California: figlio di un agricoltore aveva conosciuto la terra di cui pure doveva aver sentito nelle mani i grumi e l’odore del solco, il segno, come una cicatrice dell’anima.
A Los Angeles aveva giocato la prima carta della formazione presso la Manual Arts High School dalla quale era stato espulso per la sua intemperanza, ma aveva scelto già i suoi riferimenti d’elezione: i nativi americani che gli avevano insegnato a leggere lo spazio con i sensi.
Sarà a New York che Jackson cercherà poi i suoi punti cardinali: il messicano Siqueiros, parimenti impetuoso nell’uso del colore immacolato, gli insegnamenti di Thomas Benton, lontano da lui nella scelta dei soggetti ma affine nella fierezza della propria autonomia espressiva, la fotografia e infine Picasso il cui ego e il talento nell’animare la superficie di vita propria dovevano fortemente impressionare il giovane artista venuto dalle terre dei pionieri.
Il passaggio futuro dell’esposizione a Malaga presso il Museo Picasso dunque ha una sua profonda ragion d’essere.
Non manca dunque nella curatela della mostra un riferimento all’attenzione di Pollock per la fotografia, al suo incedere sulla superficie piatta della cristallizzazione della tridimensionalità: un’immagine di Hitchock e la sua attenzione per il mistero della psiche umana vi svelerà l’arcano. Sarà infatti il grande regista inglese per primo a chiedere all’impeto emotivo vagante nei labirinti della mente umana di respirare nella pellicola, così come Pollock lo imporrà alla sua tela, perché questa ricalchi un inno impetuoso all’energia creativa celata, alla sua epifania, al suo furore, alla sua fiamma vitale.
Buona visione!
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