Una raffica di vento spazza via le vocali. I muri della stanza assorbono le consonanti. Le finestre aperte servono a farci stare zitti, a prenderci i sogni e portarli dall’altra parte del muro. Della barricata. Dell’ordinario. Del possibile. Non esiste vuoto più pieno di quel vuoto riempito di sogni, però. Lo sai. Lo vuoi. E lo insegui. Coi piedi, carponi con le ginocchia sbucciate, a bracciate di stile libero. E sanguini oppure bagni qualcuno con l’acqua che schizzi dalla vasca dei sogni. Disturbi qualcosa, rompi un equilibrio, dentro di te. Rompi una pianella da quanto pesti forte i piedi. Salti. E la pianella era il tuo ieri.
Ecco perché tiri fuori la voce. Ti piace sentire che hai qualcosa da dire forte. Non importa se il vento spazza via tutto. Forse porta tutto a qualcuno che sta a sentire. Forse basta già che ti senti tu. Forse i muri che trattengono le consonanti non reggeranno più e crolleranno. Non sono poi così fatti bene. Ma non importa, perché sei già dall’altra parte. Dell’ordinario. Del possibile. Senza spostarti di un centimetro. Non esiste vuoto più pieno di quel vuoto riempito di “e se stessi dicendo a te”…
Se stessi dicendo a te?
Che in questi miei ripassi mentali chissà perché non cambio mai i soggetti. Che non ci sono più ripiani ordinati. Che ho paura quasi di sfiorarti con le dita sulla guancia, sui fianchi, per sapere che non ne potrò fare più a meno. Che ho paura che tu possa sapere che in fondo io non valgo la pena.
E se stessi dicendo a te che tipo di terza guerra mondiale è iniziata qui dentro. Che ho già iniziato a sapere già dove mi porta la tua pelle. Che credo nel sopportarsi una vita intera senza troppa fatica e che il sempre è solo un’estensione di voler essere noi un corto oggi.
E se stessi dicendo a te di dimenticarti quasi un po’ di me ogni giorno per riscoprirmi. Che voglio uscire dalle finestre con te e le porte le lasciamo a chi ha i piedi per terra. Che mi basta un caffè e un tuo sorriso per rivalutare il senso di una giornata. Che voglio credere che sarai sempre lì, lì sulle mie ferite a lenire, a nasconderle alla vista, a farle diventare cicatrici.
E se stessi dicendo a te che mi prendo il tempo che vuoi per dirti chi sono, e per essere chi sono, tra le maledizioni e la fretta di weekend troppo stretti. Che forse c’è qualcosa che puoi strapparmi dal petto senza farmi male. Che qualcosa in me è già tuo. Il corto oggi, esiguità di un solo più lungo sempre. Sempre più sempre.
E se stessi dicendo a te? Pensa.