Quella patina lucida sopra gli occhi che darle un nome sarebbe inventare. Azzardare. Caldo, freddo, caldo, c’è sempre. A chi gli anni servono per lasciarsi indietro qualcosa, a chi per celebrare qualcosa. Chi tira sempre le somme. Gli inventari di fine anno. Con la matematica. O con i sentimenti. E ricorda ogni particolare. Te lo tira giù come una canzone di Battisti, e te lo recita anche in ordine alfabetico. Con nostalgia. A cavallo dell’anno io viaggio. Per lasciare da qualche parte quella patina lucida. L’ennesimo binario. Tutti hanno qualcosa da dire, a un lontano, a un vicino, a un telefono, a un giornale o da ascoltare, almeno una playlist su per le orecchie. Il rumore ci deve essere sempre. Le foto interessanti dei giornali sono la carta straccia di domani. Ma sfogliamo. è una costante, una necessità per ricordarci che siamo qui. Rumori e colori. Biglietti obliterati di stazioni sono coriandoli sulla banchina di un anno nuovo, di percorsi lasciati e presi da migliaia di pollicino. I binari che sono lì da sempre, o quasi, che ci portano da sempre, o quasi. Si parte con il rumore e si arriva con il chiasso. Le fermate sono nuovi carichi di girandole forsennate, pollicini, più o meno, sulla strada giusta. Ubriachi. Fatti. Con la gonna troppo corta. Stanchi.
C’è sempre chi fissa alti i finestrini veloci della notte in cerca di sé, di quel pensiero che faccia star meglio. Chi ha motivo di ricordare un viaggio simile, amato, odiato, perso, acciuffato. Della fortuna, della sfortuna. Chi con la testa reclinata e gli occhi chiusi ha scoperto. Chi ha immancabilmente sentito la necessità di condividere i suoi affari personali, perché risultassero interessanti. Chi si stringe su quel sedile sporco di mille persone per non dare centimetro al freddo, che si sa viaggia gratis con Trenitalia. Ci sono quelle facce che non hanno niente da dire, come la mia, che non sorriderebbero per non stancare la sessantina di muscoli facciali. Che non cercano domande e non vogliono risposte. Con quella patina sopra gli occhi che dargli un nome è un sacrilegio. C’è chi sa chi è ma non cosa sta essendo. Chi non sa cosa vuole diventare o cosa vuole tornare. Chi vuole credere, gridare, essere al centro, essere al lato, al buio. Chi pensa ai parenti che i chilometri nascondono. Chi vorrebbe sentirsi come se fosse con loro. Che vorrebbe spingere un passeggino e non un trolley.
Attenzioni che non mi sfiorano, parole che non mi entrano, paure che non mi spaventano. Viaggio per te che non puoi. Viaggio per me, per riempire gli occhi di luce. Per aggrapparmi a qualcosa di così veloce che non si accorgerà di me. Arrivo per la pioggia di Firenze. Ed un tempaccio dentro col sorriso di fuori. Spero che i telefoni tacciano. Che il lontano mi faccia da casa. E non ricordo più nulla in Piazza della Signoria. Torno zero tondo al mercatino di San Lorenzo contrattando per ogni cosa sotto l’ombrello. Qui ogni porta sembra che abbia un secolo, anche quella del condominio. E ti senti piccolo. E tutto è un momento perfetto. Nuovi sorrisi, nuove mani, nuove lacrime accennate. La leggerezza dei Toscani. Dalla collina Prato, lo sconosciuto, l’infinito. Gli olivi secolari. La grigliata, il calcio balilla, le coppie felici che si stringono sulle poltrone ed io che sulla mia ci sto largo. Ecco le novità. Tabelloni, controlli, dieci anni di meno coi ricordi al caldo. Dieci anni e siamo ancora qui. Il bagno della sede centrale della Sai senza aver il pass. L’ombrello e i biscotti di uno sconosciuto. La pioggia dentro agli occhi a 70 orari. Torno qui e lo scrivo. Torno qui e ricordo. Un anno che non ha bisogno di nulla, né di ricordi per vivere. Sta già lì da solo in piedi. Poi un calcio sulle ginocchia ed eccoci nell’anno successivo. Niente scompare, niente appare. Giochi di prestigio o follie. Si torna a una casa vuota piena di piatti da lavare che non profuma di cucinato. Piena ad ogni angolo, tranne da quello da cui scrivo. Con la speranza di non aver nulla da sperare o da aspettare. Con la patina lucida sopra gli occhi che non è andata via, la camicia bianca, il gilet, la giacca, la cravatta grigia a righe ancora per lo specchio.