Ma chi siamo in queste foto tagliate a metà, appiccicate su internet, sui bordi di diari, in cui si vede un braccio sulle nostre spalle? Si intuiscono capelli vicini ai nostri. Eternamente felici per la durata di uno scatto, giorni, come per scherzo, i sorrisi, magari abbronzati. Magari tirati a lucido con tanto di brillantini. Dove manca l’altra guancia. Chi siamo in queste foto fatte, viste, in cui centinaia di impiegati escono dagli uffici; Torino, Londra, New York, Tokyo, dopo aver timbrato il cartellino sono di nuovo tutti del mondo. Ed il mondo è di nuovo nuovo. E tutti sulla metro, sui treni, sui marciapiedi, sui tacchi e sulle borsette, e sui fascicoli sotto braccio. Operai con le borse frigo fino ai parcheggi all’area ovest, con la polvere del giorno ancora addosso. La cuffia e le mani spellate. Aspettano il divano e la tv. Ma chi siamo dentro le nostre famiglie, che è sempre tutto un fermento? Facciamo le formichine e portiamo sempre qualcosa da qualche parte per qualcuno? Per l’inverno. Per un grazie detto da regina. Seduti a pranzo fissiamo i piatti, i quadri che non sopportiamo, il pane o i visi? Perché solo quelli sono davvero diversi.
Chiamiamo amici quelli che condividono la nostra stessa strada in uno stesso momento, poi li perdiamo, un attimo. La strada è sempre lì. Qualcuno si è distratto. Siamo una spalla, un braccio, un gomito, uno schiaffo? A ricordare il freddo della vita a qualcuno. Siamo un maglione, una cartolina di Haiti precompilata e regalata, una canzone riavvolta fino al pianto?
Siamo quel naso schiacciato contro la finestrella dei sogni, e/o la finestrella di una macchina fotografica che vuole prendere di tutto e di più. Per ricordare. Al limite di quel che si può gioire poi ancora dopo. Per far vedere che quel naso pigiato c’è stato. E ci son stati i biglietti e i chilometri. Siamo quelli che ancora viaggiano con la benzina che mette la mamma, o sulla macchina comprata con il suo aiuto. Quelli che mangiamo da quella pila di pacchi di pasta sempre presenti in dispensa, e se ci manca il nostro tipo preferito ce la prendiamo a male.
E non ci pensiamo spesso. Che se andiamo in velocità è merito di chi ha preso la rincorsa insieme a noi spingendo chi siamo.
Siamo padroni della nostra vita, davvero senza rimpianti, per suggerire agli altri di essere padroni della loro? Ma chi siamo in mezzo a tutto questo spostarsi di puntini per vivere meglio? Siamo quelli che ci fermiamo davanti ad ogni cosa. Anche a una partita di biliardo senza sapere le regole, vivendo nell’ignoranza affascinati il talento di qualcuno. Intanto che pensiamo a trovare il nostro. La spontaneità del talento. Il sorriso del talento. Contro i nostri mille modi di saper soffrire. Le mancanze. Siamo quelli che diciamo io non ti amerò, io non ti sposerò. Quelli che meglio non stare in braccio ed innamorarsi già sulle scale di un monumento. Siamo quelli che accarezziamo la chitarra nella nostra stanza e la spacchiamo gettandola a terra davanti a una folla in delirio. E siamo sempre da una parte. Spettatore o sul palco. E paghiamo in modi diversi. Biglietti. Eventualità. Vizi. Bambole e camerini di sabati sera dimenticati con l’alcool. Angoli. Cassa numero 10. Palestra. Sottotitoli. Siamo quelli che accendiamo sempre la luce, la radio, l’amore. Nei momenti sbagliati e nell’ordine sbagliato.