
Autore: Miljenko Jergović
Pubblicato da Bottega Errante edizioni - Settembre 2019
Pagine: 192 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Brossura, eBook
ISBN: 9788899368562
ASIN: B081557PT1

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Le storie contenute in questo libro sono state scritte mentre la guerra distruggeva le vie, le case e le vite di Sarajevo. Sono storie di amori e addii, di morti e di fragili speranze. Sono le storie di chi sembra aver accettato la follia umana e l’assurdità della sorte. Ma anche di chi tenta di sopravvivere cercando di ricostruire da zero una nuova vita.

Non c’è nemmeno più da rassegnarsi alle scomparse, perché la guerra prevede oltretutto l’esercizio a una morte senza tristezza.
L’assedio di Sarajevo durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, provocando la morte di circa 12.000 persone. Queste sono le cifre che si possono reperire su qualsiasi libro di storia. Ma sono soltanto numeri. Dobbiamo fare uno sforzo di volontà per cercare di afferrare il loro significato. Quasi quattro anni vissuti in stato d’assedio. Quattro anni in cui aprire gli occhi la mattina con la consapevolezza di avere davanti un altro giorno in cui la morte avrebbe bussato alla propria porta decine di volte. Quattro anni in cui vivere in una città costantemente colpita dal lancio di bombe. Quattro anni in cui vedere amici, parenti o semplici vicini partire per sempre. O, purtroppo, morire. E a morire furono più di 12.000: l’equivalente di un intero paese. Un intero paese cancellato. È questo il significato di quei numeri.
Per tentare di avvicinarci alla quotidianità di chi ha vissuto quell’orrore è però inutile affidarsi alla sterilità implicita in ogni cifra. Ad aiutarci possono invece essere le pagine scritte da Miljenko Jergović. Con Le Marlboro di Sarajevo possiamo immergerci nella realtà di quei mesi anche se sempre attraverso scorci fugaci, tratteggiati con leggere pennellate. Si tratta infatti di una serie di brevi racconti, in cui si ha appena il tempo di accostarsi alla vicenda e alle sue atmosfere per poi dover subito passare oltre, ad una nuova storia. Ma ogni tassello aiuta a ricostruire lo stesso quadro: da punti di vista diversi tutti raccontano la stessa guerra, le stesse violenze, lo stesso dolore. Ma è proprio la guerra a restare sempre in secondo piano, protagonista nascosta di queste pagine. Sappiamo che c’è, è onnicomprensiva, eppure incapace di dominare la scena. Emerge attraverso le vite dei personaggi, in quella valigia sempre pronta perché “lì dentro devono starci tutte le cose e i tuoi ricordi”. Ma è incapace di fagocitare ciò che la circonda. L’autore parla di uomini e donne che hanno vissuto in una città in guerra. Non della guerra in sé. Come scrive Claudio Magris, quella di Jergović “è una violenza che proviene da ovunque, eppure non si sa da dove”.
E alla fine a lasciarci davvero sgomenti non sono le bombe ma l’immagine di chi è dovuto andar via, abbandonando tutto, senza neanche salutare perché “in quei momenti si poteva andare via solo così”. L’immagine di coloro che si sono lasciati una vita alle spalle e che, pur non nascondendo le proprie paure, hanno capito di avere ancora la possibilità di fare una scelta. E nonostante tutto hanno scelto di scegliere. Di scegliere il futuro.
Approfondimento
Quando si pensa alla Bosnia degli anni Novanta viene subito in mente l’atrocità della pulizia etnica. Immediatamente ripensiamo a quanta violenza sia scaturita da quel serbatoio di popoli, culture e religioni che erano (e sono) i Balcani. Grazie a questo libro è possibile scavare nei dettagli ed entrare nelle vite di chi quegli orrori è stato costretto a viverli in prima persona.
Generalmente non amo molto la forma del racconto breve perché non aiuta il lettore a sviluppare un rapporto con le vicende narrate. Purtroppo anche con Le Marlboro di Sarajevo ho riscontrato lo stesso problema. Diventa difficile entrare in sintonia con i personaggi e le storie quando lo spazio a disposizione non supera le quattro, cinque pagine. Avremmo bisogno di essere introdotti gradualmente in un mondo che sentiamo così lontano dal nostro e invece abbiamo la sensazione di avere in mano una serie di Polaroid ingiallite, scattate in luoghi e tempi diversi. Le guardiamo, ci sforziamo di collocarle con precisione, strizziamo gli occhi per vedere più nitidamente i volti ma sono sforzi inutili. Per quanto la si fissi, una Polaroid ingiallita non potrà rispondere alle nostre domande o suggerirci altri dettagli né tantomeno offrirci una prospettiva più ampia.
Qualcosa di simile si prova con i racconti di Jergović. Quando terminiamo la lettura resta in noi il senso complessivo di ciò che abbiamo letto, accompagnato da una patina di malinconia, ma diventa difficile far riemergere un singolo volto o una singola storia. Come se tutto fosse stato riassorbito, perdendo i contorni e assumendo la stessa sfumatura d’indeterminatezza. Ricordiamo di aver letto racconti diversi ma ad emergere è alla fine solo l’immagine di Sarajevo, quasi la città si fosse riappropriata delle sue traversie e della sua gente.