
Autore: Vigdis Hjorth
Pubblicato da Fazi - Settembre 2021
Pagine: 300 - Genere: Narrativa
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Le strade
ISBN: 9788893258692
ASIN: B09DZP371W

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“A circa cinque chilometri di distanza abita e respira mia madre.”
Una tenzone vibrata nello spazio di un’assenza, un passo a due sulla superficie sdrucciolevole di un’epopea familiare interrotta.
Un romanzo graffiante che scava alla radice del mito della madre, dissotterrando luci ed ombre del rapporto enigmatico genitori-figli.
Una donna capace di partorire nella propria testa una “madre interiore”, di inoltrarsi sul filo della memoria nel dedalo dei ricordi di un’infanzia cristallizzata nella propria mente: una via coi suoi snodi ed i suoi bivi, lastricata di angosce inconfessabili, di paure vecchie e nuove.
“Ma fammi vedere i tuoi occhi! I tuoi grandi occhi scuri! Sono freddi, sì, lo so! Ma fammeli vedere, lascia che li penetri, per vedere se nel profondo non ci sia un pensiero per me.”

Un turbine di interrogativi ingolfato nelle pieghe di un “e se…”.
Questa è la storia di Johanna, cinquantenne, vedova, madre, nonna, sorella. E figlia maggiore di una madre che non vede da trent’anni.
Questa è la storia della “pecora nera” e del macigno di una colpa antica che le incombe sul capo, ma anche della più fiera delle insurrezioni contro un destino che sembra segnato.
La storia di un incontro dapprima eluso, quindi temuto, quindi ancora fantasticato, infine inseguito a pieni polmoni.
Lontananza principia con una telefonata sofferta, a lungo meditata. Ad alzare la cornetta è la protagonista: colta da un raptus irrazionale, il suo gesto è poco più di una preghiera infantile lanciata nell’etere.
All’altro capo una donna ottantenne, sfuggente, enigmatica: sua madre.
Una risoluzione, quella di riallacciare un rapporto interrottosi bruscamente decenni addietro, che scalfisce la coltre di silenzi che la stessa Johanna aveva contribuito ad innalzare quando, fuggita di casa trent’anni prima sulla spinta di un temperamento irrazionale, aveva di punto in bianco tagliato i ponti con la propria famiglia, al punto da non fare ritorno neanche per assistere al funerale del padre.
La scure abbattutasi sul rapporto madre-figlia determina una cesura insanabile: da quel giorno, nel quale fino alla fine la madre aveva sperato di veder comparire la figlia sulla porta della camera ardente del padre, l’assenza di qualsivoglia contatto ha il gusto agre della damnatio memoriæ, mentre e tra madre e figlia cala un silenzio tombale che è un rimprovero urlato sottovoce.
Fino al giorno fatidico in cui, chiusi in un fagotto puerili sensi di colpa e insulse recriminazioni, i passi di Johanna si dirigono decisi verso il punto omega dove tutto sembra sospingerla.
E se a questo disastro affettivo fosse possibile porre rimedio? Se recuperare un rapporto interrottosi bruscamente fosse davvero alla sua portata: è questa la folle idea che balena nella sua mente, di percorrere lo spazio di uno sguardo nel quale, deposte le armi, potersi dire che tutto il tempo trascorso non è trascorso invano.
Determinazione pretenziosa, ma se è vero che la fortuna arride agli audaci potrebbe persino capitare che, al fondo di quei silenzi, ad attendere Johanna e sua madre sia un segreto condiviso capace di ripristinare un “noi”…
Ma come dare sostanza a questo proposito? Basterà a Johanna fare appello alla passione per il disegno, nel tentativo risicato di fissare sulla carta il profilo sfuggente della madre? E chi rappresenta l’immagine che si agita sulla punta della matita di Johanna, la materia informe che si flette docile come un ammasso di creta tra le mani di un vasaio?
Credendo di disegnare la mamma, avevo disegnato me stessa, credendo di aver scandagliato mia madre, avevo scandagliato me stessa, con le mie matite non mi ero avvicinata alla mamma o al suo mondo, ma soltanto al mio?
È l’assenza stessa della madre a volgersi nello spazio che la fantasia riparatoria della figlia intende colonizzare: in un monologo estenuante interamente ospitato nella propria testa, sarà Johanna a pescare a piene mani dai propri ricordi per restituire calore e colore al fantasma esangue di una madre che è l’anaffettività stessa fatta persona.
Mamma, ti invento a parole.
Un inseguimento straniato e straniante che si tingerà dei toni dell’ossessione: Johanna arriverà a pedinare la madre fino a rovistare nella sua spazzatura alla ricerca del percolato di una vita pertinacemente negatale. In un crescendo serrato, quella che ha tutta l’aria di una battuta di caccia esiterà in un epilogo sublime e terribile: è allora che distinguere chi abbia abbandonato chi avrà perduto ogni significato.
Perché la madre è uno specchio in cui la figlia vede se stessa come sarà nei tempi a venire, mentre la figlia è uno specchio in cui la madre vede il proprio io perduto.
Un percorso di maturazione che è di pari passo una sofferta pacificazione con sé stessi, col proprio passato, con le proprie fragilità: perché le cicatrici inferte dalle nostre azioni ed omissioni le possiamo contare tutte sul nostro volto.
Approfondimento
Molto efficace la scelta della narrazione in prima persona, capace di supportare la struttura, invero potenzialmente monotòna, di un memoir che a più riprese esce dal solco del genere per incendiarsi con accenti di rabbia che trascolorano nell’invettiva furente: particolarmente sapidi i passaggi nei quali la rievocazione scavalla nel flusso di coscienza, con il necessario adattamento del periodare.
Disturbante la figura torva di Ruth, l’arcigna sorella di Johanna dall’enigmatico oscuro ascendente sulla madre, verso la quale nutre un atteggiamento iperprotettivo che sconfina nella subdola circonvenzione: appena abbozzata nella propria umanità, Ruth agisce da autentico corpo estraneo nell’ingranaggio della dialettica simbolica figlia-madre, sasso d’inciampo sulla via di una riappacificazione possibile fintantoché qualcuno si spende perché essa sia.
Meritano poi un occhio attento le pagine immersive in una natura selvaggia e fiera nella quale placare la propria inquietudine, tòpos letterario che coagula in sé un universo di significati ineffabile come la luce che filtra a stento tra i tronchi contorti.
Seguendo il pensiero dell’io narrante veniamo accompagnati a confrontarci con temi capaci di toccare corde segrete nel cuore di ogni lettore: il pregiudizio, l’ambivalenza, la colpa, l’emancipazione.
Temi di fronte ai quali schierarsi è difficile tanto quanto necessario, fermo restando che la vita è sempre più forte, a lei l’ultima parola.
Mi aveva chiesto: «Non hai fatto niente di male, vero?» Non credevo, ma non si poteva mai esserne certi.
Ma il tema portante dell’intero romanzo Lontananza è, ad avviso di chi scrive, il ruolo della memoria come antidoto all’assenza, capace di fabbricare ex nihilo una presenza nel senso etimologico dello “stare avanti” (praesentia) gli occhi di una mente che non si rassegna al ruolo di spettatrice, ma reclama un proprio spazio d’azione.
Vivo una vita segreta nella coscienza di mia madre e mia madre una segreta nella mia, ma sto per disseppellire mia madre dalle tenebre, sto per portarla alla luce.