
Autore: Luis Sepúlveda
Pubblicato da Guanda - Settembre 2017
Pagine: 304 - Genere: Narrativa, Racconti
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Narratori della fenice

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Raccolta di brani scritti da Luis Sepulveda intorno all’efferata Dittatura Militare di Augusto Pinochet. Nella loro natura essi rassomigliano quasi a saggi storici; già contenuti in opere precedenti pubblicate, sono qui collezionati come un corpus organico al fine di dare una visione diacronica dei fatti. Precisamente si prende da “Il Generale e il Giudice” (2003) “Il potere dei sogni” (2006) “Cronache del cono sud” (2007), “Ultime notizie dal sud” (2011).

C’era tempo fa, sulla Rai, una trasmissione che s’intitolava Milano – Roma; il format prevedeva d’accostare due tipi famosi, metterli su un’automobile, e farli viaggiare per sei ore senza radio per stimolare la conversazione. Per esemplificare la natura delle coppie: l’anteprima fu Dario Fo, passeggero, e Ambra Angiolini alla guida. All’altezza di Bologna, una macchina, suonando all’impazzata, gli si accostava con un cartello bianco appiccicato sul finestrino “hai vinto il nobel!” (Era per Fo, ci mancherebbe).
In un’altra puntata accostarono Luis Sepúlveda e Jovanotti, con esiti e stridori simili alla coppia precedentemente citata. Ebbene Jovanotti chiese a Sepúlveda cosa facesse per il mondo o qualcosa di simile; quello, tra l’imbarazzato e il divertito, con la calma e la lentezza che l’hanno sempre contraddistinto, gli disse che era stato tra le file del GAP alla Moneda, l’undici settembre millenovecentosettantatré. L’altro gli rispose che lui invece aveva scritto “cancella il debito”.
Quell’incontro fu per me la prima occasione di sentir parlare della dittatura cilena; non capii moltissimo (era il millenovecentonovantotto, avevo nove anni), ma mi sembrava davvero strano che quel signore tondo e gentile e flemmatico avesse potuto imbracciare qualcosa di diverso da un grosso gatto pigro. Avevo appena letto “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, e mi ero meravigliato di quell’indolenza magica che hanno i sudamericani nel dir le cose belle e grandi con solo tre paroline semplici semplici. “Diario di un Killer sentimentale” fu il secondo, che lessi cinque anni più tardi, innamorandomene ancor di più.
Si conosce QUEL Sepúlveda , il Fedro nato a Ovalle in Cile ma apolide per molto tempo, girovago cantore che per molti anni abitò l’Europa, l’Italia e la Germania soprattutto. Non m’aspettavo di vederlo come in questo Storie ribelli.
Nessuno può né deve sentirsi al di là del bene e del male, tanto meno noi che abbiamo la responsabilità della parola scritta.
Questo Storie Ribelli colpisce proprio perché non è libro tipico di Sepúlveda . È testimonianza e storia, cronaca e memoria, parola scritta, giornalismo. È la documentazione degli orrori perpetrati dalla dittatura militare di Augusto Pinochet AL Cile dal millenovecentosettantatré: un argomento complesso da trattare per una serie di motivi che lo stesso Sepúlveda cerca di spiegare nel primo macro capitolo del volume.
Prima di leggerlo, se si è poco ferrati sull’argomento, consiglio di documentasi – basta sfogliare la pagina di wikipedia sopra Pinochet e il secondo paragrafo della pagina sopra Sepúlveda (sezione “produzione letteraria e impegno politico”). Procuratasi una base (piccina picciò) adeguata, da quella sarà il tono dell’autore a trasportarci nelle spire dell’orrore smisurato, dell’omertà, della pace negata, dei testimoni e degli eredi. Pinochet è morto nel dicembre del duemilasei, ma ancora oggi quell’orrore rimane, per alcuni versi ancor più efferato, perché oggetto d’un volontario appannamento da parte dei governi che lo succedettero. Disse bene Lautaro Nùnez, archeologo: i cileni tengono una sola visione, no dietro, no a destra, no a sinistra, solo avanti. La allargherei all’umana stirpe intera e alla sua fondamentale indifferenza verso tutto ciò che non ha la forza o la capacità d’immaginarsi. E niente fa questo effetto di straniamento quanto la realtà stessa, ancor più se è stata terribile e sanguinosa.
Questo fatto è attribuibile, secondo Sepúlveda , anche a un discorso di lotta di classe; perché, sostiene, il Cile è due paesi, il paese che parla “la lingua dei proprietari terrieri”, ovvero la lingua del ceto alto, liberista, che ha il controllo economico del paese, che non è interessato a perdere i propri privilegi, che a suo tempo fu tappeto all’ascesa di Pinochet; e il paese lavoratore, proletario, socialista, falcidiato dalla repressione, cacciato e scacciato, esiliato, torturato.
Pure chi di quella barbarie oggi scrive, denuncia Sepúlveda , tende ad abbassare i toni, a smorzare, ad accontentarsi delle briciole di magnanimità che i carnefici (quasi tutti impuniti) gli han lasciato, come falsa prova di pentimento (e aspettandosi pure un grazie – arrivato). Queste briciole son indicazioni a fosse comuni ricolme d’oppositori, di scomodi, di radicali, di presunti non allineati; un mea culpa, secondo loro, di alcuni vaghi atti forse troppo crudeli, comunque già amnistiati quando Pinochet lasciò (per così dire) il comando del paese a un governo “democratico” e passò ad essere senatore a vita.
È per combattere questa deriva obliosa che Sepúlveda scrive, come fosse ancora accanto al compagno presidente Salvador Allende, oggi come quell’undici settembre di quarantacinque anni fa. (Rimando al capitolo “perché scrivo?” che così ve lo spiega lui e mi toglie dall’impiccio di spiegarvelo io).
Nelle sue righe traspare l’orgoglio di un epurato, che mai potrà dimenticare; l’orgoglio silenzioso, afflitto e pur pieno di coraggio d’un torturato (sette mesi ha passato in una cella dove non gli era possibile né sdraiarsi, né stare in piedi); vi traspare la rabbia, la sete di giustizia, e il rimpianto per quello che Salvador Allende avrebbe potuto essere e rappresentare con il suo governo popolare, il grande sogno socialista di un Cile libero e solidale. In pace.
Ma, racconta Sepúlveda , è la storia stessa che ritorna, è la terra avida che s’apre a voragine per inghiottire i corpi e si rifiuta di restituirli; come accadde agli indio uccisi nel 1907 dai militari d’un governo al soldo delle compagnie del salnitro perché chiedevano più diritti.
L’aria sapeva di rose appassite, perché è quello l’odore del sangue.
Questo accadde a suoi amici, compagni, fratelli, spariti nel nulla dopo l’agonia della tortura. Sepúlveda par scrivere con la voce loro e sua, insieme, par volerli portare all’invocato processo a Pinochet, e sederli, uno per uno, sopra al banco dei testimoni, per render giustizia alle loro urla perdute. La sua è infatti voce di testimone prima che di storico, è la voce dell’amico che scava e cerca nella polvere, che ripulisce i resti dalle scorie, che prova a riconoscere le ossa, che riassembla, che riattacca frammenti di memorie che l’odio e il potere, che il fascismo han cercato di cancellare per esser sicuri d’impedire l’ascesa del comunismo. Una sicurezza che ha i nomi americani di Richard Nixon e Henry Kissinger (premio nobel per la pace, guarda te il caso, nel millenovecentosettantatré).
È questo Storie Ribelli, un libro che colpisce, molto, e in profondità. È qualche cosa di più di una testimonianza, è l’impronta dello spirito Cileno (sudamericano in senso lato), il risultato d’un dolore, la nostalgia nella sua accezione originale e greca, quella che parla di “dolore che viene da una vecchia ferita”. Ecco, se da questa definizione partirete, avrete, in questo libro, oltre che il diario di un sopravvissuto, anche l’idea di quel che è la natura di un intero popolo, e il suo rapporto con la storia e la memoria.
La gente migliore del Cile conserva il coraggio che ha reso possibile giorni migliori e la sacra ira dei giusti. E come loro, anch’io ripeto: NON SI DIMENTICA NÉ SI PERDONA.
Approfondimento
Sarò brevissimo e conciso in questo approfondimento, per il motivo fondamentale che voglio sia un accessorio non alla recensione precedente, ma al libro stesso, consigliando, assieme alla lettura, un lungometraggio che, a mio avviso, esemplifica e amplia il discorso di Sepúlveda e assieme a lui vi aprirà uno spiraglio su un pezzo di storia umana, terribile, ma che, per questo motivo, è nostro dovere ricordare.
Il lungometraggio si intitola “Nostalgia de la luz”, di Patricio Guzman; è un documentario sul deserto di Atacama, nel quale si incontrano astrologi, archeologi e le donne dell’Atacama che scavano in cerca dei resti dei loro famigliari desaparecidos. Parla di stelle, di uomini, di memoria, del Cile, della vita.
Luca Viti
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