Massima d’un moralista francese
“Non ho mai esaminato l’anima di un uomo cattivo,
ma ho esaminato una volta l’anima d’un uomo buono…
e sono fuggito inorridito!”
“Ricordare è forse il modo più tormentoso di dimenticare
e forse il modo più gradevole di lenire questo tormento”
E. Fried, 1988
Il perdono: sentimento di superiorità? Di tenacia? Di forza? È un sentimento? Sicuramente è una grande dimostrazione, di un continuo e indissolubile legame affettivo. Perdonare fa bene, soprattutto a chi lo concede. È “terapeutico”! “Per perdonare, dobbiamo superare il risentimento, non negandoci il diritto di provare quel risentimento, ma sforzandoci di vedere il colpevole con compassione, benevolenza ed amore, pur sapendo che egli ha volontariamente abbandonato il suo diritto su di essi”. Il perdono “aggiusta” relazioni danneggiate. Il cambiamento della disposizione d’animo verso l’offensore è necessario, ma è pure necessario esternarlo anche attraverso azioni positive rivolte a colui che ha offeso.
In psicologia la scienza del perdono è argomento relativamente recente, precedentemente l’atto del perdono era preso in considerazione solamente da filosofi, antropologi, sociologi e… religiosi! Dai cristiani ad es. “Dio, perdona loro perché non sanno quel che fanno”, chiede Gesù dalla croce. Non è forse quella cristiana la religione del perdono, che ha nella confessione il suo principale rituale? Non è argomento semplice, di fatto ad oggi bisogna ancora ben comprendere cosa si intende per perdono. Perdonare non è il “semplice” scusare o giustificare o dimenticare un torto subito. Perdonare non è neppure riconciliarsi con la persona che ha offeso. Il perdonare non è un atto puntuale, un atto immediato, è un processo e ancora, è l’esito di un lungo lavoro psicologico, spesso doloroso.
La decisione di perdonare dà inizio a un difficile percorso interiore che implica il superamento di sentimenti negativi e dell’assunzione di un atteggiamento positivo nei confronti di chi ci ha fatto del male. Il perdono è uno sforzo, una scelta che implica necessariamente un atto di volontà e nel contempo un atto creativo, un percorso a spirale attraverso il quale riattraversare i propri ricordi, le proprie matrici psicologiche e relazionali. Per perdonare ci vuole tempo, a volte molto tempo, perché è un processo lento, processo che evolve in diverse fasi. La prima fase è quella del riconoscimento dell’offesa, indipendentemente dal fatto che sia grave o meno. Pensiamo alle molte donne, per esempio, che hanno difficoltà a riconoscere nella violenza del marito un’offesa. Troppo spesso queste donne scusano, giustificano o preferiscono dimenticare le offese.
Il concetto è che però senza avere alla base un effettivo riconoscimento, principalmente con se stesse, del torto subito, non si possono sviluppare le capacità del perdonare. Nel concreto quindi la vittima deve poter riscoprire l’umanità di colui che si è reso responsabile dell’offesa, in modo che la sete di vendetta possa essere mitigata, l’abbandonare l’idea di vendicarsi nonostante si abbiano tutte le ragioni per farlo. Infine, la vittima deve cambiare i propri sentimenti verso l’offensore, per esempio passando dal rancore alla benevolenza. La seconda fase è la decisione del perdono, non è una fase istantanea. L’offesa, una volta riconosciuta ha bisogno di oltrepassare l’automatico desiderio di vendetta, la rabbia, ma anche la giustificazione o la tentazione di dimenticare. “Metterci una pietra sopra” che implica la decisione al perdono, ha bisogno di tener presente sempre la motivazione, cioè l’offesa, e quindi la sua gravità. Solo in questo stato di cose, ci si può rendere disponibili al perdono, con il conseguente sforzo e impegno nel farlo.
La terza fase è lavorare per il raggiungimento del perdono. L’obiettivo principale rimane sempre l’offesa subita, quindi si inizia con l’assumere la prospettiva di chi ha offeso. Il meccanismo comportamentale messo in atto è quello di cercare di entrare nei panni dell’altro, i panni di chi ci ha recato offesa, e quindi nel ripercorrere il processo che ha portato ad offendere. Si diviene così empatici con l’offensore. Se ne prova sincera ma consapevole compassione e se ne accetta la sofferenza. Si arriva a comprendere che il perdono è un atto unilaterale, che non coinvolge chi ci ha offeso. “Io ti perdono, qualsiasi cosa tu faccia. Anche se non me ne fai richiesta. Anche se non chiedi scusa”.
La quarta fase è l’approfondire il senso del perdono e le sue conseguenze. Ora dunque, non ci si limita a perdonare chi ha offeso, ma si ridisegna la propria vita. Naturalmente il processo del perdono non si esaurisce in questo schema di consapevolezze, non fosse altro perché ogni percorso che porta al perdono è personale. Altro aspetto degno di nota, nella predisposizione verso il perdono, comprende tutta quella serie di effetti che giovano sulla salute psico-fisica. Perdonare riduce il risentimento, e restituisce una modalità più serena di relazione con l’altro e come ancor più importante con se stessi. In ogni offesa c’è qualcuno che ha fatto del male a qualcun altro ma, spesso, attorno a questo semplice nocciolo di sofferenza ingiusta, è aggrovigliata una matassa di torti e di odio quasi impossibile da sbrogliare.
A volte bisogna arrivare al perdono passando attraverso l’intrico dei sentimenti e dell’incomprensione. Molte volte, inoltre, dopo aver perdonato, rimane un po’ di rabbia, non si può, infatti, cancellare il passato, ma solo guarire dalla sofferenza che esso ha causato. Il perdono guarisce l’odio, ma non modifica i fatti e non ne elimina tutte le conseguenze, però ci fa vivere meglio.