Io e te. Di tutte le case, tu eri la casa che non avevo visto, quella all’angolo della strada, quella che sembrava disabitata. Ti sono passata davanti una sera delle mie sere peggiori e non so perché ma mi sono fermata. Mi sono messa lì a fissare le imposte serrate, la porta chiusa a chiave, quel buio intorno, e mi sono detta “Sta’ qui finché non fa giorno”. S’è fatto giorno ed ero lì e le finestre erano ancora chiuse ma qualcuno era sveglio, lì dentro. Sentivo i rumori attraverso i muri con un formidabile udito che non sapevo di avere: l’acqua per il caffè che bolliva sui fornelli, il cucchiaino che urtava le pareti della tazza, lo slittare soffice delle pantofole sul pavimento. Il gatto. C’era qualcuno, lì dentro, che non poteva sentirmi ma che io sentivo, ed eri tu.
Sono rimasta lì per giorni interni ad ascoltare la tua vita attraverso i muri, i tuoi caffè e i tuoi silenzi, a immaginare i libri che stavi leggendo, le camicie che indossavi, il numero esatto delle tue cravatte. Poi ti ho intravisto, un giorno che per sbaglio hai aperto le persiane, e sei passato dietro i vetri e mi hai visto anche tu. Non bene, giusto così, di sfuggita, il tanto che bastava. Ho preso coraggio e mi sono fatta più vicina. Mi sono seduta sui gradini di casa e ho acceso una sigaretta. Ho infilato due lettere dalla fessura nella porta. La prima era gialla ed era la mia luce che veniva a te, se mai ho avuto luce. Ti ho scritto direttamente, senza brutte copie, ché non avevo bisogno di trattenermi il pensiero. Poi ne ho infilata una seconda ed era azzurra. Avrei voluto fosse più scura per essere il blu che sei, quel colore di notte che porta con sé la promessa del giorno. Ti ho scritto che sei una clessidra e che, quando finisce il tempo, ti capovolgi e ricominci e non finisci mai per davvero. Ho continuato a stare sugli scalini a fumare sigarette per tutto il tempo che è servito, per tutte le telefonate di sera e la tua voce così nota che credo di averla sempre ascoltata, da qualche parte dentro di me. Le mie calecchie e i tuoi buchi neri. Il mio essere logorroica e Viber che chiude le chiamate, addormentandomi ogni sera stretta ad un vuoto che ha la tua forma e che vuoto, in fondo, non è.
Dici sempre che se ti guardi allo specchio ti fai schifo, ma è che hai scelto gli specchi sbagliati e che se ti guardassi in me vedresti altro. Vedresti i tuoi occhi, così grandi e scuri e profondi che all’inizio ti dicevo “Non fissarmi così” perché non riuscivo a sostenerle, le parole che parlavano. Le tue labbra così belle che ho mandato a memoria come una poesia. Sei da vivere e respirare, da spalancarti le finestre a far entrare la luce, da viaggiare stando sul divano con un libro in mano ma anche senza libro, anche senza vestiti. Sei la casa alla fine della strada, quella che il buio nascondeva, ma c’eri e ti batteva il cuore dentro i muri. E mi hai detto “Sei sul pianerottolo del mio cuore” ed ero lì davvero, senza valigie ché non ne avevo bisogno, a farmi fumare le sigarette tra le dita, finché non hai aggiunto “Fa freddo, che aspetti?”. E ho riso e un po’ anche pianto in un momento che eri distratto e ti ho preso la mano ma erano mille anni che ti stringevo le dita: solo, non lo sapevo ancora.
E so che non potrai tenere sempre le imposte aperte e la luce a rimbalzare sui muri; so che a volte vorrai solo il silenzio e delle coperte sotto le quali nasconderti, ma non per questo sarai meno casa. Chiamiamo casa il luogo che ci abita anche quando è buio, anche quando fa freddo e il riscaldamento non funziona. Finché resta, stabile sulle sue fondamenta, a cuore pulsante, è casa.
Come te.