Robin Hood e i suoi amichetti, tutti appesi per il collo, tra le querce vizze e grigie.
Niente maghi, principi o cavalieri, tutti partiti alla testa di ladri e contadini, poeti ed accattoni. La guerra d’outremer continua e continua e non finisce mai e tutti fagocita.
Dame e principesse lasciano alla polvere ricami e sospiri dalle finestre della torre. Imbracciano le falci tra i campi, i martelli dei fabbri. Invecchiano, cupe e silenziose, stramazzando di fatica.
Tutto si spegne come in un autunno privato del rosso e dei suoi toni da un vampiro dispettoso. Elfi che non sanno più tirar d’arco e cacciare falcidiati dalla fame tra gli alberi ora ostili. Nani minatori, sempre più rintanati nelle montagne, generazione dopo generazione, divoratori di topi e pipistrelli, resi dementi dalla consanguinea intimità.
Suonano soltanto il silenzio e le pietre che si sgretolano nei castelli e nelle fortezze dai grandi camini spenti e freddi, mentre re e regine si nascondo tremanti dalla furia di comparse senza nome di mille favole, rivoluzione ad una miseria che non c’era. Rivoluzione che non c’era. Persino le masse, non c’erano mai state prima.
Nessuno, nessuno qui prospera. L’antro malefico nella vecchia palude è rovinato su se stesso, l’acquitrino seccato e duro, anonimo. L’uomo nero, non è più lì, non tormenta e non spaventa più. Emerso anche lui dal bosco col sogno segreto di prosperare in quell’abbandono, ora raccoglie rape per tre pezzi di rame al giorno. La notte, suo vecchio dominio, se li ribeve con gli interessi. Almeno fino a quando continueranno a fargli credito. Tutto va morendo.
Smettiamo di sognare, di essere un po’ bambini, di lasciare una porticina aperta a fate e draghi, ci diciamo severamente, serenamente, che è tempo di crescere, di lasciare quei mondi a chi bambino lo è ancora. Li lasciamo marcire, marcendo un po’ anche noi che li abbiamo creati in ore ed ore di occhi sognanti. Li lasciamo marcire finché non dimentichiamo la strada per tornarci, e riportarvi i colori.
Proprio allora, cominciamo a desiderarli di nuovo.
Giorgio Arcari