Scendiamo esatti come la pioggia. Ti senti esatto? No, tu ti senti perso, la creativitá del dolore e del disordine, ma vedi, se le cose bruciano sempre alla stessa maniera, se arrivi sempre alle stesse risposte e poi ti fermi con fare desolato, se continui a cercare nello stesso punto anche quando nulla é rimasto, se ti senti cosí, fissato con qualcosa che diventa qualcuno, allora tu scendi esatto come la pioggia, abituale, come il tempo. Scendi e ti fai tagliare dalle cose piú appuntite del mondo, che so una penna, e ti senti morire del piú gran male del mondo, che so un mal di testa. Scendi e ti fai scorrere, esatto e incompreso, come altre volte, come sia l´ultima. A caso, in ritardo, ma puntualmente.
Eugenio chiuse il libro lasciando il pollice tra le pagine in caso di ripensamenti. Era vero, era proprio cosí. Scendiamo, tutti alla propria maniera, ciclica e ripetitiva, senza entusiasmo, senza piú prime volte. Perché dobbiamo, perché anche se ci smontassero e rimontassero saremmo sempre uguali, con le stesse caselle vuote, le paure, le stupidate, i colpi di genio, i colpi di culo, le efficienze, le rimostranze e tutta la giostra. Il libro era senza pretese, copertina compresa, eppure Eugenio sentiva di aver appena trovato la forma del suo essere. Capita leggendo. Anche di ferirsi. É piú probabile che qualcuno che non hai mai visto riesca attraverso un libro a farti mettere in discussione te stesso che la parola di un amico, un conoscente. A questo siamo arrivati. Chiara dormiva giá, indisturbata dalla piccola luce sul comó. I bambini l´avevano stancata con la storia dei dolci. Dovevano essere addirittura due, e la festa del giorno dopo doveva essere assolutamente la migliore tra quelli della classe. Marco e Cristiana, gemelli, due angeli monelli. Vita.
12 Settembre. Eugenio fissava il calendario nell´area di pausa dello stabilimento. Stampava etichette per bottiglie di mezza Europa. Non si poteva sbagliare, l´unico rischio era abituarsi al movimento del macchinario di rifilatura e lasciarci un dito o la mano se disattenti. Forse l´esattezza degli uomini l´avevano passata alle macchine rendendole addirittura migliori, incapaci di riflettere e dunque di tentennare, di farsi scrupoli, di prendersi una pausa, di migliorare o peggiorare, di sentire qualcosa all´esterno. Questa perfezione faceva fermare tutto, faceva perdere soldi, imprecare il capo di produzione quando dimostrava che perfezione non era, che l´uomo ha trasmesso anche i difetti alle macchine, angoli ciechi, buchi imprevedibili, dimenticanze, pezzi e schemi logici mancanti, e quel non essere pronti a tutto.
Uscivano pezzi in serie, perfetti dal punto di vista meccanico. Il mondo vuole solo le cose perfette. Non importa quante scorie lascerá la produzione, o quanto sará il tempo su cui ci si deve lavorare, il costo in termini umani o economici, la fattibilitá, la coerenza con altro, l´impatto sulle cose o persone. Qualcuno su una scrivania stabilisce i requisiti perfetti, le macchine fanno di teoria pratica, l´uomo ritira e sparge. Pezzi perfetti che combaceranno sempre, cambieranno il mondo. Dicono. Eugenio é stanco di tutto questo. Di comportamenti prevedibili, di manuali di istruzione, di vivere di copie senza sforzi. Di amare cosí. Chiara non si accorge di quanta impossibilitá gli baleni negli occhi e i bambini non sono che una congiunzione indebolita. Ti sposi e pensi che pagherai gratis l´amore. Avrebbe voluto essere lo spartito non studiato di un musicista che ha un concerto, le parole di una storia di uno scrittore che non sa dove iniziare, un colore a scelta che battezza la tela, lo sforzo nuovo per una direzione nuova di un atleta sicuro. La famiglia é una casa e la vita ci entra dentro come il vento dagli spifferi a volte. Tutto il resto del tempo é apnea.
Eppure tu sei il primo che cerchi la perfezione, pensava. Non sogni che avere una famiglia, e ti comporti da perfetto, come se non fossi anche una brutta persona, tutto il tempo dell´innamoramento. Vuoi in serie anche il lavoro, minimo sforzo massimi risultati ma ora che c´é la crisi economica e le cose si son capovolte in massimi sforzi per minimi risultati l´immagine della perfezione si crepa. Poi volevi lei perfetta, che quando l´hai vista nuda per la prima volta adagiata accanto a te sul letto stavi per morire, era bella di una bellezza che non torna piú peró, di una bellezza che cambia se cambi anche tu. E poi i figli, pensi che siano esattamente come per te dovrebbero essere ed invece certe cose non le puoi cambiare, ad alcune domande non puoi rispondere, certe domande ti portano alla realtá, quella che fa male, e quando pensi al futuro ti chiedi quanto ne rimane per loro. E tu se scegli una realtá scegli sempre quella che non fa male. Passi mesi a scegliere l´auto perfetta, gli abiti perfetti e le attivitá su cui buttare il tempo rimasto perfette. Lasci filare liscio come viene ed invece le cose piú significative hanno origine da scontri, da domande, da tempo concesso alle confusioni, da cose illogiche ma non per questo senza senso, da cose che piacciono a pochi. Prendi un´imperfezione, non ti ci abitui mai, ti ricorda sempre qualcosa, c´é sempre da capire qualcosa, nel suo segno ci passano fiumi di pensieri che diventano azioni, domande, stati d´animo preziosi, originali, fuori serie. Prendi un´imperfezione, e ci costruisci una costellazione di imperfezioni, la incolli sul suo cuore e le ami come ami lei e dove non riesci tenti. Se accetti che non tutto é perfetto accetti la veritá, accetti di perdere a volte, accetti la diversitá come stimolo, accetti i no ingiusti. Accetti e vai avanti, come nel gioco dei pacchi.
– Hai preso tutto? I bambini li porti stasera al parco con la bici? Io sono stanca.
– Preso tutto. Sí prenderemo anche il gelato. Ma stanca di cosa?
No, non aveva preso tutto Eugenio. Il cuore non poteva prenderlo non c´era piú. Solo inesistenze seriali. Buchi neri, tempi interminabili per decidere senza decisioni, silenzi non di parole silenzi di occhi di anima asciutta e silenzi di sospiri senza direzione. Giá, ma stanca di cosa?
Capita di essere stanchi e non sapere di cosa. L´impressione di camminare su una sottile lastra di ghiaccio e sotto arda l´inferno. Andava tutto come doveva, lo sapeva Chiara, e lo sperava cosí tanto che lo sapeva.
Una mattina sola a casa aveva preso carta e penna e aveva scritto una sorta di poesia. Lei non era tipo da poesie, aveva solo bisogno di pensare forte senza alzare la voce. Parlava di lei, di Eugenio, della famiglia, dello squarcio. Diceva
mari senza rotta
barche senza mari
dolore senza appigli
appigli senza cuore
in sporca esatta pioggia
nel resto
ricordiamoci che c´é da vivere
Aveva ripetuto quelle parole fino a memorizzarle, poi aveva strappato il foglio. E non avrebbe piú scritto un altro dolore.
Pasti lasciati a metá, pasti presi fuori casa, la distrazione, l´impressione di soffocare, il “non ho tempo”, il non sfiorare piú le gambe nel letto il sabato pomeriggio quando i bambini sono dalla nonna e girarsi di spalle e girare insieme una pagina della tua vita. E dentro un cuore squarciato, inerme, occupato da inesistenze perfette moltiplicate. Come una malattia. In quei momenti pensi a Maria di controllo e qualitá, che forse potrebbe occupare quelle inesistenze, guarirti oppure pensi di dire come ti senti alla persona che hai e che per un po´sei. Contano i fatti non le chiacchiere. Per questo Eugenio dopo il lavoro la sera del 22 Novembre saliva le scale di un´appartamento trascurato di Ronchetto sul Naviglio. Si sentiva stanco e confuso. Sicuro di essere confuso. Maria gli aprí la porta con una tshirt al posto dell´abito, vestita quasi di niente. Il programma era una passeggiata, il programma di lei era andare al dunque. E il dunque era un fatto, di quelli che contano.
– Chiara. Chiara! Devo dirti una cosa.
– Shhh. Non voglio sapere niente.
– No, davvero. É una cosa importante.
– Un giorno.
– Ho aspettato due anni.
– Va bene, ma poi entriamo in acqua.
– Senti amore, io son stato solo, siamo stati soli. Ho cercato qualcosa in qualcuno. Dovevo essere io quel qualcuno e invece…
– Mi stai dicendo che mi hai tradito?
– Son stato un debole, son stato davanti a una donna in mutandine che mi fissava per convincermi, ho rivisto la nostra storia d´accapo e ho visto la fine, ti ho dimenticata e ti ho ferita. E ho prodotto solo altre inesistenze seriali. Non so se mi capisci.
– Io..non ci posso credere.
– Quegli attimi che hai il destino tra le mani. Mi son voltato piangendo e son tornato a casa da voi con la necessitá di essere piú imperfetto e piú vero. Mi son vergognato di fare il qualcuno senza esserlo. Di mandare avanti il nostro rapporto senza scannarci su delle cose solo per lasciare che fossero perfette, di assecondare i tuoi desideri senza motivo, di non rispondere con le parole piú vicine al cuore ma quelle piú vicine alla bocca, di essere sempre qualcosa, un esempio, un giusto, uno pronto a tutto.
– Io..Per quello sei cambiato?
– Sono cambiato per te. Ma quell´attimo mi ha mostrato tutto il vuoto mio e tuo che abbiamo permesso. E mi son detto: “mai piú”.
– Fa male. Io non ho mai pensato di sostituirti.
– Le cose vere fanno male. E questo é l´ultimo paragrafo di un atto in cui son stato vero. Ora che non siamo piú vuoti, che non siamo piú esatti come pioggia sulle cose io sento il per sempre di ogni giorno.
Chiara non disse niente. I bambini facevano gli architetti di un castello sul bagnasciuga. Lo abbracció e nel momento in cui lo fece sentí di averlo capito. Sapeva di averlo perso e ritrovato e la colpa poteva essere anche sua. Da due anni era cambiato tutto, loro erano altri, imprevedibili e veri e non era stato un caso dunque. Ma non importa, poi. Certe cose succedono per farci capire di che pasta siamo fatti, quanto teniamo alle persone, cosa vogliamo, dove vogliamo andare, per farci capire chi siamo davvero e chi vogliamo diventare ancora. Per farci riempire le nostre inesistenze con una giornata al mare come anniversario di matrimonio, le grida dei bambini che ti dicono di venire, e il per sempre di ogni nuovo giorno.