Ci svegliamo ancora con il desiderio di avvicinarci. In tutti i sensi. In tutti i modi. I desideri sono preghiere laiche che ci vengono a cercare, che non sanno che altro fare, che non fanno rumore e hanno più forza di tutte quelle macchine rumorose inventate dall’uomo fatte per portare, spostare, piegare, cambiare. I desideri possono riposare nella prossima vita. Se c’è. Avvicinarci. Perché non ci possono essere chilometri, sbagli, orgogli, difetti, ritardi che tengano. Alla fine. Forse questa volta devi decidere di oltrepassare la visione dell’ovvio e i limiti dell’impossibile. Cambiare il concetto di necessario.
Ridefinisci limiti. Ridefinisci vivere.
Ci penso da un po’. La vita non deve ridefinire te. Sto in piedi lì, a volte in ombra perché insicuro, a volte coraggioso, a volte ferito, a volte trascinatore, a cogliere il senso dell’essere giusti per qualcosa, poi per qualcuno. Il senso. E’ un segreto. L’anima diventa un pozzo profondo da cui puoi attingere se sai a chi dare. Se sai perché.
Io che nascondo i singhiozzi, gli incubi, la mia mancanza di libertà, il sentirmi inadeguato, il tuo vederti nonostante dappertutto. Pensare per difetto, per paura di sognare, di incassare il colpo sbagliato a sorpresa da un destino che non esiste. Soffocare in mezzo a parole che non escono neanche a chiedere cortesemente. Tu che pensi al plurale. Io che provo a capire quanto è animato il tuo dentro in quel moto perpetuo antidolorifico immaginario alla portata di soffio. Estendo quel concetto di vita a tutto ciò che tocco e sembra non bastare. Mi lascio cambiare da promesse non fatte sospese e invisibili, necessarie alla speranza. Penso che quel che abbia sia poco e che sia già tuo. E quei dolori che lasci, a volte, servono a imparare a cicatrizzare, servono a far capire che siamo veri, che la felicità assoluta appartiene solo alle foto, immobile, assurda provvisoriamente immortale. Tu che ti svegli ancora all’alba per pensare a me. Per risolvere i problemi in stazioni di tempo disabitate. Io che non avrei creduto. Io che dietro gesti assolutamente normali tengo a trovare ciò che può intenerire il cuore senza sapere perchè. Un minuscolo senso di mancamento fragile appannato vero come un niente. Schiacciamo le preoccupazioni contro i corpi senza colpe, si pesca l’ansia dal fondo non chiaro e il tempo sembra il solito scassinatore professionista autorizzato. Assaggiare il tuo profumo. Ma c’è dell’altro. L’unione di due corpi è possibile dopo l’unione delle anime. Dopo essersi accettati senza la pretesa di cambiarsi.
Vogliamo pensare le stesse cose senza dirlo. Incontrarci a metà strada. Io che di strada volevo farne di più. Tu che mi chiedi in quale strada io sia. Brusche dosi di caffeina a rendermi mobile e brillante, per un po’, quel poco che mi serve a pensare di essere capace di avere tutto ciò che mi serve. Capace di prenderlo. Tu che mi sopravvaluti. Che cerchi l’appoggio. Che aspetti che chilometri di progetti siano lastricati. Che non ti vergogni a dirmi che hai bisogno di me. Che non subaffitti i tuoi sogni, che non dai a nessuno le tue mani fredde. Che quando fai pause troppo lunghe mi devo preoccupare. Che c’è qualcosa che non basta. Che tutto quello che basta è solo a un solito passo. E gridi fuocherello. Incidenti giusti. Siamo. Incantevoli stucchevoli. Vieni a farti ballare sulle dita, direi. Isolati, scoperti, disperati, presi. Presi e mai dati.