Gli occhi non possono scorrere l’anima. E se potessero, non troverebbero una descrizione da dare a tutto quel vuoto. Non lo saprebbero contare, stimare, addomesticare. E’ semplicemente lì da sempre. E arriva il momento in cui prepotentemente ti accorgi di lui.
Non c’è scritto da nessuna parte cosa devi fare col tuo tempo. Come d’altronde col tuo vuoto. Però se non lo usi per lavorare, per farti una famiglia, per farti i fine settimana, per fare lo sport, per coltivare il tuo hobby, per stare con le persone a te più care, per risolvere i problemi, beh la maggioranza penserà che non sei normale. Allora diciamo che dai il tuo tempo a tutte queste cose, un po’ per piacere, un po’ per dovere, perché tutti se lo aspettano. E il vuoto lo ricacci indietro. Col solo pensiero c’è da torturarsi. Da perdersi.
Sarebbe interessante avere dei contatori che girano nascosti sotto il petto. Poter dire: dalla nascita ho usato 3 milioni di KW/h per scrivere. 8 per cancellare. Così, per dire. Avanti così per ogni attività. Sapere dove abbiamo lasciato le nostre forze. Dove si è profuso il nostro impegno. Dove abbiamo lasciato il nostro segno. 274 milioni di KW a intonacare case di persone. 112 milioni per fare il messo comunale. 7,2 KW ad amare il proprio figlio. 14 KW a confortare un amico. 17 KW a essere gelosi del partner.
Non è così semplice. I conti non ce li fa nessuno. Ma sicuro li paghiamo.
Sentiva paura. La paura di non sapere dove sarebbero andate le energie il domani. Per cosa. Perché. Si vive per oggi mai per domani. E’ tutto così corto. Succede di passare a vivere una vita e dimenticarsi poi in un momento cosa si è stati. Tutto questo correre. Questo andare. Dover scegliere tra motivazioni, direzioni, in continuazione con lo sguardo. Con il portamento. Con la voce e il coraggio. Assorbire le maree di desideri degli altri, gli urti, i pizzichi, gli sfioramenti. Tutte quelle informazioni che ti entrano dentro insieme trasformate in impulsi, in chimica, in reazioni. Resta poco tempo, poche forze forse per conoscersi. Per ascoltare se stessi.
Trentotto anni passati dentro una scuola per otto ore al giorno. Qualcosa impari. Lei aveva imparato a leggere le persone che le passavano sotto il naso. Come si fa con i libri. E lei non ne rifiutava nessuno. Certo a modo suo. Partendo dalla fine. Saltando e poi tornando indietro. Sfiorando con devozione la copertina che ognuno ha scelto di mostrare senza prenderla come punto di riferimento di valutazione. Affascinarsi era il suo segreto. Per non finire mai. Dare sembianze al mistero latente nelle persone il suo obiettivo. Tentare di valorizzare la storia, entrare nella storia senza recitarla, senza cambiarla, il suo desiderio nascosto.
L’androne di competenza era al secondo piano. Ala destra, otto classi, molte finestre. Un banchetto per sé, nel sottobanco i libri, un elenco telefonico, appeso storto al muro un telefono vecchio marchiato Sip, la settimana enigmistica in corso, qualche quaderno a righe dove lasciare i pensieri più importanti del giorno. Questo il suo regno. Fatto di aria che sa di matite e sedie perennemente storte e gesso sotto le lavagne. Ovviamente tutti erano dell’idea che la sua occupazione fosse mantenere tutto pulito, prendere i fogli sputati dalla fotocopiatrice, alzare la cornetta. Raccontare qualche barzelletta ai ragazzi nella pausa. Questo sembrava. Lei si sentiva nata invece per cercare nella gente la verità. L’impiego di bidella era diventato un modo per riuscire. Per sentirsi più viva. Per arrivare ai grazie delle persone, silenziosamente, senza che alcuno si accorgessero di averlo detto.
Immobili gridi silenziosi. Richieste di aiuto. Voglia di esagerare. Tentativi di dimenticare. Mille storie diverse l’una dentro l’altra come piccole matrioske. Questo siamo sempre stati. E sempre saremo. Qualcuno nasce con la voglia di forzarle. Di prenderle come sono.
Lei.
L’ultima campanella per lei era suonata un Ottobre identico a tutti gli altri. La scuola era iniziata come tutti gli anni da tre settimane. Il professore solito con la macchie di gesso nel gomito. Il rubinetto del bagno delle donne a gocciolare come sempre su quei vasconi vuoti che poco avevano a che sembrare con i lavandini. Le tapparelle bucate dalla grandine dell’82. Sì, perché qui al sud le cose non si riparano finché si può, perché i presidi fanno la spesa con quei soldi. I ragazzi ancora con i short, le borse praticamente vuote, la gelatina spessa sui capelli, le ragazze scarrozzate sui motorini e le scie di profumo. L’impazienza della professoressa Scampi. Le urla di De Girolamo. La puzza di alcool dall’alito del collaboratore di Vinci. Odore di buona estate sotto le suole. Dicevo, l’ultima campanella. Un piccolo grande universo in continua espansione improvvisamente implodeva. Chissà com’è. Non gliel’hanno mai chiesto. Non l’hanno voluto sapere. L’hanno lasciata semplicemente andare. Un abbraccio e via. Qualcuno aveva vinto il concorso statale per sostituirla.
Il primo giorno dopo l’ultima campanella fu un non giorno. Del suo regno restavano solo i quaderni. La verità delle persone rimasta appiccicata con l’inchiostro di sfuggita. La voglia innata di andare a frugare nelle pieghe dell’esistenza senza una casa. Qualcosa era cambiato. E dentro la parola “pensione” si nascondeva un senso d’inutilità, di abbandono, d’improvviso vuoto. DI tristezza.
Non c’erano più i consigli dati sotto forma di domande per non offendere i professori Giaccaloni e Sali. Le loro vite apparivano così chiare come acqua di sorgente che si poteva raccontare il loro prossimo passo. Ascoltavano cosa aveva da dire, lei. In qualche caso si fecero pure guidare su decisioni difficili della vita privata. Senza averne formalmente parlato s’intende. Non c’erano bugie di cui ridere in compagnia. Non c’erano più le risposte sagaci, alle prese in giro dei ragazzi, che ridimensionavano ogni spacconeria ed ego gonfiato. Non c’erano quelle piccole lezioni di vita, date dall’esempio, dal silenzio, dall’annuire col capo, dalla fierezza, dalla domanda giusta. Perché le risposte, quelle, bisognava trovarle da soli. E gioirne. Non c’era trattenersi di più a scuola per asciugare di nascosto da tutti le lacrime a qualche ragazza in crisi.
Adesso c’era la paura di domani. Di un domani perennemente spoglio. Il secondo giorno, il terzo. Un mese, sei mesi. C’era la gente anche fuori. Ma tutti correvano. O tutti stavano seduti nei bar a parlare di sport e donne e malattie. Mancava la verità. Mancava chi avesse bisogno di lei senza che chiedesse. Qualcuno che si fermasse un attimo a farsi scorrere da occhi curiosi, capire dalla sua mente acuta. Qualcuno che non ce la facesse più. Qualcuno in cerca della strada come i ragazzi. I suoi ragazzi.
Non si era mai chiesta cosa si pensasse di lei. Non c’era stato il tempo. Ora…beh i dubbi sono brutti.
Ci pensate al fatto che per orgoglio diciamo spesso “non mi interessa cosa pensano gli altri di me” e poi quando lo sappiamo invece ci offendiamo, irritiamo, dissentiamo? Se davvero non ci interessasse saremmo indifferenti. Completamente. Nessuno lo è. Ci interessa sempre cosa pensa qualcuno di noi. Lei non si era interessata. Non c’era stato il tempo. Ora…beh i dubbi scavano dentro.
Una vita a dare e non impari a prendere. Le mancava ogni centimetro, ogni angolo della scuola. Lei si riempiva solo svuotandosi, completamente. Forse il suo contatore era già alla sesta cifra con i KW/h usati per capire e aiutare gli altri. Forse si era anche stancato di tenere conto pure il contatore. Così, sentimentali i pensieri. Si svegliava ogni giorno con la volontà di tornare indietro. Tornare in quella ritmica cadenzata confusione che dura i nove mesi buoni e che per i ragazzi si traduce in una parola sola: promozione o bocciatura. Ma se non accetti il presente, la vita non accetta te. Ti ripudia. Ti dimentica. Ti cancella dalla lista di quelli di fatto vivi. O fuggi per sempre o vivi.
Fu cosi, una specie di sbaglio essenziale al futuro. L’idea di un momento. Prese con sé tutti i soldi risparmiati di una vita. Arrivata alla stazione di Brindisi fece un abbonamento annuale. Non comprò il giornale. Mise il suo quaderno dentro la borsetta. Si sedette, si sistemò i capelli. Le ruote del treno mangiavano le gocce di brina gelate sui binari. Il paesaggio si schiudeva alla luce come una conchiglia che non vuole perdere la sua perla. Il silenzio univa davvero i vagoni l’uno all’altro, le persone le une alle altre. Pensava a quella follia. Sceglieva nuovi sogni. Si ritrovava. Fu il suo primo vero viaggio. Brindisi-Ancona, Ancona-Milano, Milano-Torino e poi indietro. Ma non c’era più un nome per indietro. Non c’era un posto dove tornare. La casa era stata affittata. C’era solo un posto dove andare. Da ora in poi. C’erano persone da distrarre, da ascoltare nei tragitti, da comprendere, da far sentire speciali. C’erano vagoni freddi la notte, e poltroncine scomode da sopportare. Vetri appannati. Vetri sporchi. Ma c’era la gente che si fermava. Il rumore monotono delle rotaie baciate aiuta a rilassarsi. Dice qualcuno. Lei era lì. Sempre. Sempre a suo agio, rilassata, utile, silenziosa, allegra, canterina. Incollata a nuovi treni. A nuove storie sfuggevoli. Nessuno si accorgeva. I migliaia di chilometri servivano a qualcosa. Non fermarsi mai serviva a qualcosa. Nessuno si accorgeva. Sfrecciavano i raggi piegati dai vetri, in tutte le direzioni. Si lasciavano andare alcuni. Lasciavano qualcosa di sé su quel sorriso rassicurante. Gli anni lievitavano sui binari. Nessuno si accorgeva ma lei ripeteva scrivendo nel suo quaderno la stesse parole. Grazie felicità.