Autore: Pia Pera
Pubblicato da Ponte alle Grazie - Febbraio 2016
Pagine: 215 - Genere: Autobiografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Scrittori
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Afflitta da un male incurabile, Pia Pera sente lentamente scemare le forze. Immersa in un presente difficile e affacciata verso un doloroso futuro, ricerca nella rigogliosa natura del suo giardino domande e risposte, dubbio e conforto, il senso profondo della vita e della morte.
Nel momento in cui nota un’impercettibile zoppia, una lieve difficoltà nella padronanza degli arti inferiori, rigidi come i rami secchi del proprio giardino, Pia Pera acquista la consapevolezza dell’inizio dell’ultima stagione della propria vita. Malattia del motoneurone, dicono: incurabile e inesorabilmente volta a privare il corpo di ogni possibilità di movimento. Per Pia, l’inevitabile avvicinarsi al tramonto del proprio tempo, la perdita graduale di forze vitali, volontà, interazione. All’autrice, a viso scoperto di fronte a tale amara verità, sovviene allora con la forza di un’epifania una poesia di Emily Dickinson, I Haven’t Told My Garden Yet, in cui ci si sofferma con grazia e sensibilità sulla permanenza degli oggetti inanimati, della realtà concreta che circonda l’uomo, una volta che quest’ultimo termina la propria esistenza terrena. Da tale punto di partenza, divenuto spunto e intimo motore, Pia sviluppa un raffinato e profondo flusso di coscienza che, attraverso la malattia, compara la propria vicenda al ritmo della natura, alle dinamiche di quel giardino che ancora “non sa” che si sta avvicinando l’epilogo del suo umano artefice.
Il simbolismo e l’analogia sono le due chiavi che accompagnano l’autrice di Al giardino ancora non l’ho detto nell’indagine del complesso rapporto tra la sua persona e la dimensione del suo giardino. Costretta dai limiti del corpo all’inazione, Pia riscopre il senso della contemplazione: l’ammirazione per una natura che scorre incurante dell’intervento umano, che nasce, muore e si rinnova, che trova sempre soluzioni spontanee per incanalare il proprio sviluppo. Dall’osservazione all’identificazione il passo è breve: così un albero sferzato dal vento ricorda il proprio corpo piegato dall’affezione, la fioritura di un bocciolo il sollievo dato dalla cura, l’affollarsi dei petali la compagnia degli amici e delle persone amate. Nell’autunno l’autrice riconosce empaticamente la decadenza della propria vita; nell’inverno, l’appropinquarsi della fine; nella primavera, una rinascita che appartiene solo alla natura, mentre l’uomo non è più. In tale dolorosa lucidità s’identifica la differenza tra un giardino inanimato ma vivo ed eterno e il tempo limitato della propria, piccola, esistenza.
In un delicato ed elegante racconto autobiografico Pia Pera tocca con mano il senso ultimo della vita e della morte, del ruolo dell’uomo e della natura, della solitudine e della volontà umana di considerarsi indispensabili agli occhi di un mondo concreto inaspettatamente autosufficiente.
La scrittura, commovente e di leopardiana memoria, a tratti eccessivamente autoreferenziale, si dipana senza cesure, a rendere ben percepibile la coscienza del tempo che passa e delle trasformazioni che porta con sé, continuamente e senza pietà, dallo sbocciare di una rosa fino alla conclusione di una vicenda umana.
Approfondimento
Forse, quando si tratta di morire, il giardiniere non è più giardiniere. Lo scrittore non è più scrittore. Forse, quando si tratta di morire, arriva la consapevolezza del proprio essere indefiniti. Quell’essere indefiniti che, meditando, si impara ad accettare.
Nella sensazione della propria inutilità, sfociata nella perdita del ruolo sociale prima ancora delle energie, Pia Pera si aggrappa alla concretezza dei fiori, delle foglie, dei rami che la circondano. La dinamica che la lega all’ambiente naturale è ambigua: certa è l’armonia tra i due attori, che si completano e si influenzano a vicenda, ma altrettanto è palese lo scollamento tra le braccia che non reggono più il rastrello, le ginocchia che non si posano più sull’erba, le mani che non smuovono la terra e le radici che, inconsapevoli, continuano la propria crescita prive di una guida. Di tale dissonanza Pia Pera si sente responsabile, sviluppando quasi un senso di colpa nei confronti di ciò che la malattia costringe a lasciare in balia dell’incuria o di mani delegate, sconosciute.
Nello sviluppo della riflessione il senso di colpa si espande a includere egoismi del passato, veniali peccati di superbia dei quali la condizione di salute sarebbe la diretta espiazione. Religione e razionalità si fondono così in una velata confusione colma di smarrimento, dove la più trascendente meditazione si accompagna alla ricerca di palliativi proposti da figure di dubbia competenza; dove la medicina e l’umana sorte si scontrano con scontato esito. Ma seduta nel proprio giardino, in intima contemplazione dei boschi, delle colline all’orizzonte e delle lunghe ombre tra gli steli dei tulipani, la donna accetta suo malgrado l’inevitabilità del suo futuro e tenta di conservare dentro di sé, sino alla fine, il profondo senso di riconoscenza nei confronti di quell’angolo di natura che ha ospitato la sua esistenza.
Irena Trevisan