
Autore: Mauro Corona
Pubblicato da Mondadori - 2013
Pagine: 235 - Formato disponibile: Brossura
Collana: Scrittori italiani e stranieri

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In un paesino delle Dolomiti in cui nevica tutto l’anno vive una stirpe di uomini abituati al freddo, al punto da essere essi stessi “freddi”, e pallidi. La quieta esistenza degli uomini freddi è minacciata dagli uomini delle “città fumanti”, che si trovano più a valle.

L’ultimo libro di Corona assomiglia più a un’epopea che non a un romanzo vero e proprio. La trama è davvero molto esile, a tratti quasi assente. Il ritmo è lento, Corona insiste nel descriverci le abitudini e le tradizioni degli “uomini freddi”. Un popolo che vive da circa mille anni sulle montagne, che parla una lingua arcaica, che ogni sera si raduna attorno al fuoco per ripetere sempre le stesse storie, perché la memoria va conservata. Un paese che ricorda le valanghe, che studia la natura, che impara dal suo comportamento. Che rispetta l’ambiente, nel solco del quale vive senza particolari sofferenze. Perché gli uomini freddi hanno imparato la sopportazione e la rassegnazione, e non si lamentano mai di quei gelidi inverni che durano tutto l’anno.
È davvero difficile continuare la recensione senza correre il rischio di fare dello spoiler. Non che alla fine ci sia un gran colpo di scena; però è solo verso le ultime pagine che si capisce il messaggio che Corona vuole lasciarci, dove conduce il racconto dell’esistenza degli uomini freddi. Ed è un momento commovente e struggente, si fatica a trattenere le lacrime.All’interno di quella che è la lunga descrizione della vita degli uomini freddi, Corona inserisce qualche episodio, che viene raccontato nel dettaglio e poi messo apparentemente da parte. Apparentemente, perché all’interno di questa narrazione corale ogni particolare ha un suo preciso significato, che viene esplicitato magari pagine dopo.
Ogni piccola vicenda diventa quindi il pezzo di un puzzle che Corona sta costruendo, per lasciarci un messaggio. Messaggio che riesco ancora a leggere come “di speranza”: la speranza che gli uomini di oggi si ricordino degli uomini freddi, e imparino qualcosa da loro. Leggendo La voce degli uomini freddi si conosce un Corona molto diverso da quello di Storia di Neve o Il canto delle manere. Lo stile è decisamente più curato, sono spariti i termini volgari e le scene cruente. Vi sono momenti di delicato lirismo, in cui si apprezza pienamente ogni parola. Il messaggio veicolato è quello solito dell’autore veneto: l’importanza del rispetto per la natura, il cui corso non va mai forzato, e per gli antenati, che prima di noi hanno imparato proprio dalla natura.
Spesso viene affrontato il tema dell’amore, che non è più pulsione sessuale ma tenerezza e romanticismo, e viene sempre descritto con un linguaggio tenue e delicato. Tuttavia, il romanzo è estremamente lento, mancando un vero intreccio. Le lunghe descrizioni – che all’inizio appaiono affascinanti – alla lunga cominciano a stancare. Tanto più che, come si diceva prima, il messaggio veicolato è quello “classico” di Corona, e anche l’ambientazione: la vita della gente sulle montagne, e il loro rapporto con la neve, le valanghe, il torrente. Il confronto con la città, il richiamo irresistibile che essa esercita sugli uomini freddi, il suo potere diabolico. E il rapporto degli uomini freddi con la religiosità, che è si attenzione al Divino, inteso in senso cattolico, ma anche una sorta di spiritualismo della natura. In conclusione, la storia degli uomini freddi è sicuramente affascinante e in certa misura interessante, il linguaggio è raffinato e delicato, oltre che insolito: non potrà non stupire chi conosce Corona. Purtroppo, le lunghe descrizioni e l’assenza di un intreccio definito non possono che rendere la lettura faticosa e il romanzo, anche se dispiace ammetterlo, un po’ noioso. La lettura è consigliata a chi desidera conoscere qualcosa di più sulla vita degli uomini sulle Alpi nel passato, e chi si sente in grado di immedesimarsi nella narrazione. Nonostante la lentezza mi sembra che il romanzo meriti pienamente il Premio Mario Rigoni Stern, in quanto davvero rappresenta “l’epopea delle genti di montagna”.