
Autore: Smith Henderson
Pubblicato da Einaudi - Maggio 2014
Pagine: 561 - Genere: Narrativa Contemporanea, Thriller
Formato disponibile: Brossura, eBook

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Pete Snow, assistente sociale, si trova a scavare nelle anse più oscure e degradate dell’umanità americana; l’immersione lo renderà loro immagine e simile, corrodendo il suo animo e spingendolo nella disperata missione di salvare e salvarsi, peggiorandosi e santificandosi in una corsa a perdere contro sé stesso, i suoi e i loro demoni.

Redenzione è un corposo thriller leggermente fuori fuoco, che si accatasta con un ritmo sbilenco fra orrori suburbani, deiezioni umane, storiacce grottesche, ragazzi problematici e i peggio posti di tutta la provincia del Montana e limitrofi.
Il protagonista, Pete Snow, vi si trascina in mezzo spossato e rassegnato. Dopo il primo intervento da assistente sociale, in apertura del libro, nel quale ci viene presentato come fosse un Callahan senza 44 magnum, tanto risoluto quanto conciliante, questo nostro protagonista ha come un calo di forze; si ha la sensazione smagrisca, perda di verve e muscolatura, di colore, in una leucemia d’iniziativa che lo sbatte a far cose senza un reale motivo, mosso oltretutto da intuzioni autolesioniste (sia per l’intreccio che per lo spettacolo).
I luoghi di questo Montana sono arretrati, vagamente pericolosi, volgarotti, gli uomini par che parlino con lentezza centrando la sputacchiera a ogni fine di frase, le donne son quasi sempre stravolte, degradate, o dolci-amare, cattive e nostalgiche ammantate d’una giovinezza incredulità. Francamente alcune scelte narrative sono farcite di quella incomprensibilità molto hollywoodiana che, nei thriller, fugge il buon senso e l’approfondimento preferendogli una strategia della tensione cieca e godereccia.
Basti pensare al primo incontro fra Jeremiah Pearl e il nostro emaciatissimo Pete Snow. Senza far troppe anticipazioni: Pete decide di riportare un bambino malato e malvestito ai suoi genitori che vivono come barbari guerrafondai in mezzo alle foreste, e ci va da solo, su indicazioni reticenti del piccolo, a piedi, dopo che il suddetto scricciolo sottolinea più volte come il padre “ci stia osservando da un po’ ”. (Della serie: ho sentito un rumore in fondo alla scala buia… aspettate qui, vado a vedere… eh beh).
Ma a proposito del folle padre del bambino, Jeremiah Pearl, un omaccione barbuto a metà fra Rambo e Kurtz, che se ne sta in giro per i monti con una cultura della storia segreta da far invidia a Corrado Augias e con una capacità espositiva simile a quella di un monologhista teatrale; un personaggio rude e aspro che quando arriva il momento d’esser davvero qualcosa, si dimostra a una sola dimensione. Nei suoi dialoghi con Pete Snow non fa altro che ripetere se stesso, non c’è approfondimento, è tutto come all’improvvisa; le parole paion prese e buttate in scena come da un canovaccio ben rodato, costruite d’un gancio con l’altro, senza che vi traspaia una vera intenzione di dir qualcosa.
La forma vince sulla sostanza, si creano idealtipi più che coscienze.
E questo vale per tutte le trame e sotto trame che si trovano nel libro: tutte soffrono, purtroppo, di questa scarsa profondità (dir superficialità nell’industria culturale è una bestemmia). Si tratta di figurini. La moglie ubriaca, il figlio disadattato ma sensibile, la figlia abbandonata, il fratello turbolento, l’amante che nasconde un passato tormentato. Sono tutti figurini di un teatro di carta che a tratti si guarda pure volentieri, ma se vien su un refolo di vento, finisce che lascian da solo lui, Smith Henderson, con le sue dita nude, probabilmente un poco dispiaciuto di non esser stato capace di sfruttar meglio le buone idee che gli eran venute.
Perché alla fine soffre anche questo libro, nei suoi risvolti e nelle sue soluzioni, della stessa malattia che è stato, faccio un esempio cinematografico recente, per il film “L’uomo di neve”. Questo libro come quel film (tralasciando si tratti di una trasposizione, prendiamola come opera originale) incomincia da ottime premesse, da una ambientazione che attrae, da una posizione del protagonista trasversale rispetto al sempiterno stilema del detective di ogni thriller classico, contemporarizzazioni orripilanti di Simenon; si gonfia d’aspettativa, ma non raggiunge mai il volume adatto per far che esploda – e dunque sul finale ci vola via dalle mani con una pernacchia.
E lo dico sinceramente dispiaciuto, da amante di quel genere che con Patricia Cornwell (dai tempi del bellissimo Postmortem) o del Boston Teran di “Dio è un proiettile” mi allietava la preadolescenza.
Questo Redenzione ha il fiato corto e arriva malamente a un certo punto con troppe somme da tirare, e nel tentativo di spiazzare cade nel cliché, e più d’una volta, sicuramente troppe. Soprattutto per due motivi: la deriva e degradazione di Pete, che avviene in due pagine, come se entrasse in un bar da Clark Gable e ci uscisse Serge Gainsburge che in una diretta nazionale della tv francese si allunga viscido e chiede a Whithey Houston di intrattenersi con lui; e l’inconcludenza delle pagine che si riferiscono alla figlia, in volume redatte in corsivo, con un narratore diverso, a inframezzare i capitoli; inutilmente fumose, inutilmente reticenti, senza l’ombra d’un mistero che varrebbe la pena al lettore d’accompagnare Pete nell’indagine sulla sua sparizione.
Ma forse sarebbe tanto uguale, perché anche se gli venisse, purtroppo, non troverebbe spessore alcuno.
Approfondimento
La cosa che mi colpisce di questo romanzo è l’abulia dello scrittore, nell’aspetto specifico della sua prosa; non ho idea se si tratti d’una scelta editoriale, di cattiva traduzione (cosa che trovo improbabile, data la fiducia che ripongo nella bravissima Paola Brusasco), o sia la vera natura del libro, ma la mano che dipinge non ha nervo né colore. Pianta descrizioni di luoghi orripilanti senza un minimo di trasporto, (suo prima che nostro); e sì che sono pure belle lunghe.
Poi ho capito.
Smith Henderson di professione fa lo sceneggiatore, e televisivo per giunta. Se prendiamo questa informazione biografica e la usiamo per illuminare di taglio questo romanzo, ecco che forse capiamo la sua malaprosa.
È più copione che romanzo, è più direttiva che narrazione: se la prendessimo come il plico cartaceo della sceneggiatura d’una stagione di Criminal Minds (quelle posteriore alla puntata 100, quelle che già cominciano a raschiare dal proverbiale barile), allora ecco che questo suo stile potrebbe pure starci.
Purtroppo senza una interpretazione fisica gli è impossibile di coinvolgere più di così; e rimane una indicazione volante, senza che un corpo vero gli regali una estetica, una personalità, senza che un attore gli conferisca tridimensionalità.
Se un giorno ne tireranno fuori un film lo guarderò con la speranza che la lacuna sia colmata.
Ma nel mentre, per concludere, colgo l’occasione per un microscopico pamphlet: al signor Jeff Vandermeer, del quale, nell’edizione ebook della quale sono provvisto, viene riportato il giudizio “vibrante come una canzone di Tom Waits” io vorrei dir questo: le dovrebbero sospendere la patente d’intellettuale e farle riascoltare in castigo Mule Variations finchè non trovi pentimento e redenzione.
Luca Viti
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