Ieri 16 Marzo si é celebrato un mese dall’uscita del libro Einaudi La gemella H, ed è un evento da festeggiare, visto il segno che questo libro lascerà nella storia della letteratura. Salutato da Einaudi come una nuova versione dei Buddenbrook di T. Mann, si addentra nella storia di una famiglia per la durata di 80 anni, dalla Germania nazista degli anni ‘30 fino ai giorni nostri. Una storia che parla di noi, che ci denuda affondando il bisturi dell’analisi, in uno stile duro e serrato, dove le parole vibrano fino a toccare le nostre emozioni più profonde, lì proprio dove abbiamo toppato, mettendo al centro del nostro mondo un’unica gemella, l’unica che è sopravvissuta: la merce. Ecco l’eredità che ci ha lasciato la propaganda fascista e nazista: l’era del consumismo sfrenato, dove tutto si compra, addirittura gli affetti; affetti comprati e poi rimessi in bancarella attraverso il Grande fratello (come profetizzava Orwell) e come ci ammonisce il filosofo Galimberti. Viviamo in un deserto emotivo devoti ad un unico dio: il denaro.
La trama di La gemella H
Fin dall’iconografia della copertina di La gemella H, natura morta che rappresenta mele marce, si sente questa mortificazione interiore alla quale ci siamo condannati e il libro scava scava come una trivella e fa male. Chi è la Gemella H? E’ la metafora della merce che regna sovrana, ma nell’anagrafe è Hilde, la gemella di Helga, quella che si è accomodata nel secolo del consumismo con un matrimonio ricco e borghese; è la figlia di Hans Hinner e di Maria Zemmgrund, che nasce in una città immaginaria della Germania, che però potrebbe essere certamente una reale: Bockburg. Qui nasce anche il padre di Hans, fabbro ostile al regime. Il figlio invece raggiunge sotto il nazismo una posizione di rilievo e ben retribuita (ecco come i soldi cambiano le menti e le rendono mele marce!) come giornalista di propaganda. Le pagine sul giornalismo mi sono sembrate particolarmente taglienti e mi è tornata alla mente la forza della parola, celebrata dai Greci: parola forte soprattutto quando mistificatoria. Attraverso la voce narrante di Hilde in La gemella H sembrerebbe che tutto è cominciato da lì: dalla parola perversa e menzognera. Infatti il romanzo si apre con Hilde che tutte le mattine si reca a comprare due quotidiani, ai quali si dedica nelle prime ore della giornata, prima di rassettare le camere dell’albergo, acquistato dal padre a Milano marittima.
In quei giornali vede la manifestazione tangibile dell’uomo con le sue brutture, iniziate da quando si è volto al Male che come un’ossessione permea l’intero libro, mentre la merce si impone come una bestia a tentacoli. Caspita mi sono detta: ma questo è un incubo alla Yeats e alla Lovecraft! La stessa sensazione provata nel vedere il film Capitale umano. Invece, siamo noi, ciascuno di noi che insegue senza lena un benessere che neppure più ci corrisponde, vista la travolgente crisi economica. Una crisi che sta lì a punire noi macchiati di tracotanza, fiduciosi ad infinitum nelle nostre capacità, perché figli della merce. In realtà in La gemella H avrebbe dovuto parlare Helga, la figlia allineata con sistema capitalistico, quella accomodante, invece a parlare, meglio a sillabare, a trovare parole “scarne e secche” è Hilde, voce narrante, quella embrionalmente in rivolta, ma quella che non riesce a tagliare il cordone ombelicale che la lega a questa famiglia di accumulatori di ricchezza. Così in La gemella H si avverte tutto il disprezzo inespresso mentre la sua vita stancamente apaticamente si conduce divorata dal male. Così la famiglia ha tutto: dalla Mercedes nera alle ville, all’albergo, ma quello che manca è il cuore. Detto nulla? Questa famiglia non ha nulla, non c’è educazione sentimentale, ma il nichilismo assoluto è il vero protagonista assieme alla merce, alla “roba” direbbe il Verga, quella che ci distrugge dentro e ci fa assistere alla morte interiore: la peggiore delle morti.
Fonte: Repubblica